Il retroscena d’amore inedito prima della strage di Capaci: Il 23 maggio raccontiamolo così
Mercoledì 20 maggio 1992. Giovanni Falcone è con Francesca. Rilegge le poche righe del rapporto ricevuto “La cupola si è riunita, si prepara un attentato forse dinamitardo, l’obiettivo, come sempre dal 1983, Giovanni Falcone”.
“D’ora in poi a Palermo scendiamo separati”.
“Non ci provare Giovanni, scendiamo insieme”.
“È pericoloso e non posso garantire la tua sicurezza, come non posso più garantire la mia, mi faranno saltare in aria” e dicendolo mima l’effetto con la mano.
“Mi garantisci che mi ami?”
“Si”.
“Questo mi basta, sabato a Palermo scendiamo insieme, io non ti lascio”.
-3 giorni a Capaci
(Fonte: “Collusi”)
Strage di Capaci, la storia
Ricordiamo a tre giorni da Capaci Giovanni Falcone, nato a Palermo il 18 maggio1939, che il 23 maggio 1992 fu ucciso dalla mafia insieme alla moglie Francesca Morvillo e ai tre uomini della scorta: Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Assieme al collega e amico Paolo Borsellino, Giovanni Falcone è considerato una delle personalità più importanti e prestigiose nella lotta alla mafia in Italia e a livello internazionale.
Nacque in una famiglia benestante: il padre Arturo Falcone (1904-1976)era il direttore del laboratorio chimico di igiene e profilassi del comune di Palermo e la madre Luisa Bentivegna (1907-1982)era figlia di un noto ginecologo della stessa città. Aveva due sorelle maggiori: Anna (1934)e Maria (1936). Venne al mondo il 18 maggio 1939 a Palermo in via Castrofilippo nel quartiere della Kalsa, lo stesso di Paolo Borsellino e di molti ragazzi futuri mafiosi come Tommaso Buscetta. Il suo parto ebbe una particolarità: nel momento in cui nacque, dalla finestra aperta entrò una colomba, simbolo di pace che – come testimoniano i parenti – la famiglia terrà con sé in casa.
Il secondo nome di Giovanni, Salvatore, gli fu dato in memoria dello zio materno Salvatore Bentivegna, tenente dei Bersaglieri morto sul Carso colpito da una granata durante la prima guerra mondiale. Il terzo nome Augusto fu dovuto alla passione del padre per la storia romana. Il fratello del padre, Giuseppe Falcone, si arruolò anch’egli durante la Seconda guerra mondiale come capitano nell’Aviazione e morì all’età di 24 anni abbattuto con il suo aereo. Anche il padre di Giovanni partecipò alla guerra: colpito alla testa, si riprese dopo un intero anno passato tra la vita e la morte. In seguito si laureò e sposò Luisa. Il fratello della nonna paterna, Pietro Bonanno, fu assessore ai Lavori Pubblici e poi sindaco di Palermo tra il 1904 e il 1905.
I Falcone dovettero abbandonare la Kalsa nel 1940 a causa dei bombardamenti della seconda guerra mondiale e sfollarono a Sferracavallo, un borgo che oggi fa parte della riserva marina di Isola delle Femmine. Dopo il 9 maggio 1943 (bombardamento della passeggiata e dei palazzi del porto) si trasferirono dai parenti della madre a Corleone. A seguito dell’armistizio di Cassibile, tornarono alla Kalsa dove, a causa dei danneggiamenti riportati dal loro appartamento, vennero ospitati dalle zie Stefania e Carmela, sorelle del padre. La prima era una musicista e si era formata al Conservatorio di Palermo mentre la seconda era una pittrice sullo stile di Francesco Lojacono.
Giovanni frequentò le scuole elementari al Convitto Nazionale di Palermo, le medie alla scuola “Giovanni Verga” e le superiori al liceo classico “Umberto I”. Frequentava l’Azione Cattolica e trascorreva gran parte dei suoi pomeriggi in parrocchia facendo la spola tra quella di Santa Teresa alla Kalsa e quella di San Francesco. Nella prima conobbe padre Giacinto che diventò il suo cicerone e gli fece visitare il Trentino e Roma. All’età di tredici anni cominciò a giocare a calcio all’Oratorio dove, durante una delle tante partite, conobbe Paolo Borsellino, con cui si sarebbe ritrovato prima sui banchi dell’università e poi nella magistratura.
In parrocchia si appassionò anche al ping-pong e in una partita giocò con Tommaso Spadaro, personaggio di spicco della malavita locale impegnato nel traffico di stupefacenti e oggi all’ergastolo. In quel periodo incrociò anche Tommaso Buscetta, futuro boss mafioso che si pentirà proprio con Falcone negli anni ottanta. Al liceo trovò il professore Franco Salvo, insegnante di storia e filosofia seguace dell’Illuminismo che con i suoi insegnamenti risultò fondamentale per la formazione del ragazzo. Terminò il liceo all’età di 18 anni nel 1957, diplomandosi con il massimo dei voti.
Nel settembre 1957 si trasferì a Livorno per frequentare l’Accademia navale, con l’intenzione di laurearsi in ingegneria, ma anziché essere assegnato ai corpi tecnici fu assegnato allo Stato Maggiore. Dopo quattro mesi, nel gennaio del 1958, abbandonò l’Accademia e tornò nella città natia iscrivendosi, al pari della sorella Maria, alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Palermo. In quegli anni ebbe modo di praticare diverse attività sportive con molta costanza, sebbene avesse dovuto precedentemente abbandonare il livello agonistico nel 1956 a causa di un infortunio. Si era così dedicato al canottaggio, frequentando la Canottieri Palermo durante tutti gli anni dell’università. Nel 1959 la famiglia Falcone fu costretta a trasferirsi in Via Notarbartolo per via degli avvenimenti legati al sacco di Palermo. Nel corso della sua vita Giovanni avrebbe poi cambiato tre case in quella stessa strada: una da ragazzo, una con la prima moglie Rita e poi un’altra ancora con Francesca, la seconda moglie. Si laureò poi con 110 e lode nel 1961, con una tesi sull’Istruzione probatoria in diritto amministrativo, discussa con il professore Pietro Virga. ( continua dopo la foto)
L’ingresso in magistratura e pizza connection
Falcone vinse il concorso ed entrò nella magistratura italiana nel 1964 e in quello stesso anno nella Basilica della Santissima Trinità del Cancelliere sposò Rita Bonnici, maestra elementare. Nel 1965, a soli 26 anni, divenne pretore a Lentini: uno dei suoi primi casi fu quello di una persona morta per un incidente sul lavoro. A partire dal 1966 fu poi, per dodici anni al tribunale di Trapani, nei primi anni come sostituto procuratore e giudice istruttore. A poco a poco, nacque in lui la passione per il diritto penale. Nell’aprile del 1969 la malattia del padre – un tumore all’intestino che lo avrebbe poi portato alla morte nel 1976 – lo toccò profondamente. In quegli anni Giovanni Falcone stava mutando profondamente, a cambiarlo non fu solo la mancanza del riferimento paterno ma intervennero anche fattori esterni. Cominciò ad abbracciare i principi del comunismo sociale di Enrico Berlinguer in occasione delle elezioni politiche italiane del 1976, sebbene la sua famiglia avesse da sempre votato Democrazia Cristiana. Scontratosi per questo motivo con la sorella Maria, motivò la sua scelta dicendo che, da profondo amante della Giustizia qual era, si poneva il problema di combattere le disparità sociali e nel comunismo intravedeva quindi la possibilità di appianare le sperequazioni. Nel suo lavoro però non si lasciò mai influenzare dalle idee politiche.
Nel 1973 si trasferì alla sezione civile del Tribunale di Trapani. Nel luglio 1978 però ritornò a Palermo. In quell’anno la Bonnici lasciò Falcone per restare a Trapani, dove si era innamorata del presidente del tribunale della città Cristoforo Genna. Nel tribunale palermitano cominciò a lavorare nella sezione fallimentare, occupandosi di diritto civile ed emettendo alcune sentenze di grande importanza.
Dopo l’omicidio del giudice Cesare Terranova, nel settembre del 1979, nonostante le preoccupazioni familiari, accettò l’offerta che da tanto tempo Rocco Chinnici gli proponeva e passò così all’Ufficio istruzione della sezione penale, che sotto, appunto, la guida di Chinnici divenne un esempio innovativo di organizzazione giudiziaria. Chinnici chiamò al suo fianco anche Paolo Borsellino, che divenne collega di Falcone nello sbrigare il lavoro arretrato di oltre 500 processi. Nel maggio del 1980 Chinnici affidò a Falcone la sua prima inchiesta contro Rosario Spatola, un costruttore edile palermitano, incensurato e molto rispettato perché la sua impresa aveva dato lavoro a centinaia di operai. Doveva la sua fortuna al riciclaggio di denaro frutto del traffico di eroina dei clan italo-americani, guidati da Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo, Carlo Gambino.
Alle prese con questo caso, Falcone comprese che per indagare con successo le associazioni mafiose era necessario basarsi anche su indagini patrimoniali e bancarie, ricostruire il percorso del denaro che accompagnava i traffici e avere un quadro complessivo del fenomeno. Notò che gli stupefacenti venivano venduti negli Stati Uniticosì chiese a tutti i direttori delle banche di Palermo e provincia di mandargli le distinte di cambio valuta estera dal 1975 in poi. Alcuni telefonarono personalmente a Falcone per capire che intenzione avesse e lui rimase fermo sulle sue richieste.] Grazie a un attento controllo di tutte le carte richieste, una volta superate le reticenze delle banche, e “seguendo i soldi” riuscì a cominciare a vedere il quadro di una gigantesca organizzazione criminale: i confini di Cosa nostra. Risalì così al rapporto fra gli amici di Spatola e la famiglia Gambino, rivelando i collegamenti fra mafia americana e siciliana. Il 6 agosto dello stesso anno fu ucciso il procuratore capo di Palermo Gaetano Costa e subito dopo assegnarono la scorta a Falcone.
Grazie a un assegno dell’importo di centomila dollari cambiato presso la Cassa di Risparmio di piazza Borsa di Palermo, Falcone trovò la prova che Michele Sindona si trovava in Sicilia smascherando quindi il finto sequestro organizzato a suo favore dalla mafia siculo-americana alla vigilia del suo giudizio.Nei primi giorni del mese di dicembre 1980 Giovanni Falcone si recò per la prima volta a New York per discutere di mafia e stringere una collaborazione con Victor Rocco, investigatore del distretto est.[
Entrando negli uffici di Rudolph Giuliani rimase stupito dall’efficienza e dai loro strumenti, fra i quali c’era per esempio il computer. Falcone seppe instaurare subito un rapporto di fiducia con Giuliani e con i suoi collaboratori Louis Freche Richard Martin, oltre che con gli agenti della Dea e dell’Fbi. Grazie a questa collaborazione riuscirono a sgominare il traffico di eroina nelle pizzerie. Anche la stampa americana seguiva con attenzione questa sinergia e presentava la figura di Falcone con stima e grandissimo favore. Nonostante la buona collaborazione con l’allora U.S. Attorney (Procuratore Federale) per il distretto sud di New York Rudy Giuliani, Falcone non nascose perplessità nei suoi confronti circa la sua integrità.
Sono anni tumultuosi che vedono la prepotente ascesa dei Corleonesi, i quali impongono il proprio feudo criminale insanguinando le strade a colpi di omicidi. Emblematici i titoli del quotidiano palermitano L’Ora, che arriverà a titolare le sue prime pagine enumerando le vittime della drammatica guerra di mafia. Tra queste vittime anche svariati e valorosi servitori dello Stato come Pio La Torre, principale artefice della legge Rognoni-La Torre (che introdusse nel codice penale il reato di associazione mafiosa), e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Il 6 giugno 1983 Rosario Spatola fu condannato, insieme con 75 esponenti della cosca Spatola-Gambino-Inzerillo, a dieci anni di reclusione ma sarebbe stato arrestato a New York dall’Fbi, in collaborazione con la polizia italiana, solo nel 1999. In precedenza per indagare su Spatola avevano già perso la vita il capo della Mobile Boris Giuliano e il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile. Il processo Spatola fu quindi molto delicato, ma rappresentò anche un grande successo per Falcone perché venne così universalmente riconosciuto il “metodo Falcone”.
L’esperienza del pool antimafia
Il progetto del cosiddetto “pool antimafia” nacque dall’idea di Rocco Chinnici, inizialmente avvalendosi della collaborazione di Falcone, di Paolo Borsellino e di Giuseppe Di Lello, ma successivamente sarebbe stato sviluppato da Antonino Caponnetto(subentrato a Chinnici, ucciso il 29 luglio 1983) che, nel marzo 1984, avrebbe poi costituito un “pool” composto da quattro magistrati (nel frattempo si era aggiunto anche Leonardo Guarnotta) affinché coordinasse le indagini sfruttando l’esperienza maturata e quello sguardo d’insieme e sul fenomeno mafioso portato da Falcone. I quattro magistrati erano affiatati, amici e con un sogno comune: restituire la città ai palermitani e la Sicilia ai siciliani onesti. Il pool doveva occuparsi dei processi di mafia, esclusivamente e a tempo pieno, col vantaggio sia di favorire la condivisione delle informazioni tra tutti i componenti e minimizzare così i rischi personali, sia per garantire in ogni momento una visione più ampia ed esaustiva possibile di tutte le componenti del fenomeno mafioso.La validità del nuovo sistema investigativo si dimostrò subito indiscutibile, e sarà fondamentale per ogni successiva indagine, negli anni a venire. Ma una vera e propria svolta epocale alla lotta a cosa nostra sarebbe stata impressa con l’arresto di Tommaso Buscetta, il quale, dopo una drammatica sequenza di eventi, decise di collaborare con la giustizia italiana. Il suo interrogatorio, cominciato a Roma nel luglio 1984 in presenza del sostituto procuratoreVincenzo Geraci e di Gianni De Gennarodel nucleo operativo della criminalpol, si rivelerà determinante per la conoscenza non solo di determinati fatti, ma specialmente della struttura e delle chiavi di lettura dell’organizzazione definita cosa nostra.Il periodo all’Asinara e il maxiprocessoCosa nostra fece terra bruciata attorno ai magistrati italiani: dopo l’omicidio di Giuseppe Montana e Ninni Cassarà nell’estate 1985, stretti collaboratori di Falcone e di Paolo Borsellino, si cominciò a temere per l’incolumità anche dei due magistrati, che furono indotti per motivi di sicurezza a soggiornare qualche tempo con le famiglie presso il carcere dell’Asinara; per tale periodo il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria richiese poi ai due magistrati un rimborso spese e un indennizzo per il soggiorno trascorso.[Qui iniziarono a preparare l’istruttoria. Le inchieste avviate da Chinnici e portate avanti dalle indagini di Falcone e di tutto il pool portarono così a costituire il primo grande processo contro la mafia in Italia, passato alla storia come il maxiprocesso di Palermo, che iniziò il 10 febbraio 1986 e terminò il 16 dicembre 1987. La sentenza inflisse 360 condanne per complessivi 2665 anni di carcere e undici miliardi e mezzo di lire di multe da pagare, segnando un grande successo per il lavoro svolto da tutto il pool antimafia.Nel dicembre 1986, Borsellino viene nominato Procuratore della Repubblica di Marsala e lascia il pool. Come ricorderà Caponnetto, a quel punto gli sviluppi dell’istruttoria includono ormai quasi un milione di fogli processuali, rendendo necessaria l’integrazione di nuovi elementi per seguire l’accresciuta mole di lavoro; entrarono poi a far parte del pool altri tre giudici istruttori.Caponnetto si apprestava a lasciare l’incarico per ragioni di salute e raggiunti limiti di età. Alla sua sostituzione vennero candidati Falcone e Antonino Meli. Il 19 gennaio 1988, dopo una discussa votazione, il Consiglio Superiore della Magistratura nominò Meli. A favore di Falcone, votò anche il futuro Procuratore della Repubblica di Palermo, Gian Carlo Caselli, in dissenso con la corrente di Magistratura Democraticacui apparteneva.La scelta di Meli, generalmente motivata in base alla mera anzianità di servizio, piuttosto che alla maggiore competenza effettivamente maturata da Falcone, innescò amare polemiche, e venne interpretata come una possibile rottura dell’azione investigativa, inoltre rese Falcone un bersaglio molto più facile per la mafia, perché la sua sconfitta aveva dimostrato che effettivamente non era stimato come si credeva; Borsellino stesso aveva lanciato a più riprese l’allarme a mezzo stampa, rischiando conseguenze disciplinari; esternazioni che di fatto non sortirono alcun effetto.
Meli si insedia nel gennaio 1988 e finisce con lo smantellare il metodo di lavoro intrapreso, riportandolo indietro di un decennio. Da qui in poi Falcone e i suoi dovettero fronteggiare un numero sempre crescente di ostacoli alla loro attività. Cosa nostra intanto assassinò l’ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, che aveva denunciato le pressioni subite da parte di Vito Ciancimino durante il suo mandato. Tempo dopo, i due membri del pool Di Lello e Conte si dimisero polemicamente. Non ultimo, persino la Cassazione sconfessò l’unitarietà delle indagini in fatto di mafia affermata da Falcone.Il 30 luglio Falcone richiese addirittura di essere destinato a un altro ufficio, e Meli, ormai in aperto contrasto con Falcone, come predetto da Borsellino, sciolse ufficialmente il pool. Un mese dopo, Falcone ebbe l’ulteriore amarezza di vedersi preferito Domenico Sica alla guida dell’Alto Commissariato per la lotta alla Mafia. Nonostante gli avvenimenti, tuttavia, Falcone proseguì ancora una volta il suo straordinario lavoro, realizzando un’importante operazione antidroga in collaborazione con Rudolph Giuliani, allora procuratore distrettuale di New York.Il fallito attentato dell’Addaura e la vicenda del “corvo”
Il 21 giugno 1989, Falcone divenne obiettivo di un attentato presso la villa al mare affittata per le vacanze, comunemente detto attentato dell’Addaura: alcuni mafiosi piazzarono un borsone con cinquantotto candelotti di tritolo in mezzo agli scogli, a pochi metri dalla villa affittata dal giudice, che stava per ospitare i colleghi Carla del Ponte e Claudio Lehmann. Il piano era probabilmente quello di assassinare il giudice allorché fosse sceso dalla villa sulla spiaggia per fare il bagno, ma l’attentato fallì. Inizialmente venne ritenuto che i killer non fossero riusciti a far esplodere l’ordigno a causa di un detonatore difettoso, dandosi quindi alla fuga e abbandonando il borsone.Falcone dichiarò al riguardo che a volere la sua morte si trattava probabilmente di qualcuno che intendeva bloccarne l’inchiesta sul riciclaggio in corso, parlando inoltre di “menti raffinatissime”, e teorizzando la collusione tra soggetti occulti e criminalità organizzata. Espressioni in cui molti lessero i servizi segreti deviati. Il giudice, in privato, si manifestò sospettando di Bruno Contrada, funzionario del SISDE che aveva costruito la sua carriera al fianco di Boris Giuliano. Contrada verrà poi arrestato e condannato in primo grado a dieci anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, sentenza poi confermata in Cassazione.Ma al Palazzo di Giustizia di Palermo aveva preso corpo anche la nota vicenda del “corvo”: una serie di lettere anonime (di cui un paio addirittura composte su carta intestata della Criminalpol), che diffamarono il giudice e i colleghi Giuseppe Ayala, Giammanco Prinzivalli più altri come il Capo della Polizia di Stato, Vincenzo Parisi, e importanti investigatori come Gianni De Gennaro e Antonio Manganelli. In esse Falcone veniva millantato soprattutto di avere “pilotato” il ritorno di un pentito, Totuccio Contorno, al fine di sterminare i Corleonesi, storici nemici della sua famiglia.I fatti descritti venivano presentati come movente della morte di Falcone per opera dei Corleonesi, i quali avrebbero organizzato il poi fallito attentato come vendetta per il rientro di Contorno. I contenuti, particolarmente ben dettagliati sulle presunte coperture del Contorno e gli accadimenti all’interno del tribunale, furono alimentati ad arte sino a destare notevole inquietudine negli ambienti giudiziari, tanto che nello stesso ambiente degli informatori di polizia queste missive vennero attribuite a un “corvo”, ossia un magistrato. Sebbene sul momento la stampa non lo spiegasse apertamente al grande pubblico, infatti, tra gli esperti di “cose di cosa nostra” (come Falcone) era risaputo che, nel linguaggio mafioso, tale appellativo designasse proprio i magistrati (dalla toga nera che indossano in udienza); le missive avrebbero così inteso insinuare la certezza che in realtà il pool operasse al di fuori dalle regole, immerso tra invidie, concorrenze e gelosie professionali.Gli accertamenti per individuare gli effettivi responsabili portarono alla condanna in primo grado per diffamazione del giudice Alberto Di Pisa, identificato grazie a dei rilievi dattiloscopici.
Le impronte digitali – raccolte con un artificio dal magistrato inquirente – furono però dichiarate processualmente inutilizzabili, oltre a lasciare dubbi sulla loro validità probatoria (sia il bicchiere di carta su cui erano state prelevate le impronte, sia l’anonimo con cui furono confrontate, erano alquanto deteriorati). Una settimana dopo il fallito attentato, il C.S.M. decise la nomina di Falcone a procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica. Di Pisa, che tre mesi dopo davanti al C.S.M. avrebbe mosso gravi rilievi allo stesso Falcone sia sulla gestione dei pentiti sia sull’operato, verrà poi assolto in Appello per non aver commesso il fatto.Le critiche e la stagione dei veleniNell’agosto 1989 cominciò a collaborare coi magistrati anche il mafioso Giuseppe Pellegriti, fornendo preziose informazioni sull’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, e rivelando al pubblico ministero Libero Mancuso di essere venuto a conoscenza, tramite il boss Nitto Santapaola, di fatti inediti sul ruolo del politico Salvo Lima negli omicidi di Piersanti Mattarella e Pio La Torre. Mancuso informò subito Falcone, che interrogò il pentito a sua volta, e, dopo due mesi di indagini, lo incriminò insieme ad Angelo Izzo, spiccando nei loro confronti due mandati di cattura per calunnia (poi annullati dal Tribunale della libertà in quanto essi erano già in carcere). Pellegriti, dopo l’incriminazione, ritrattò, attribuendo a Izzo di essere l’ispiratore delle accuse.Lima e la corrente di Giulio Andreotti erano disprezzati dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando e da tutto il movimento antimafia, per cui l’incriminazione di Pellegriti venne vista come una sorta di cambiamento di rotta del giudice dopo il fallito attentato, tanto che ricevette nuove e dure critiche al suo operato da parte di esponenti come Carmine Mancuso, Alfredo Galasso e in maniera minore anche da Nando Dalla Chiesa, figlio del compianto generale. Gerardo Chiaromonte, presidente della Commissione Antimafia, scriverà poi, in riferimento al fallito attentato all’Addaura contro Falcone: «I seguaci di Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità».
Nel gennaio 1990, Falcone coordina un’altra importante inchiesta che porta all’arresto di trafficanti di droga colombiani e siciliani. Ma a maggio riesplose, violentissima, la polemica, allorquando Orlando interviene alla seguitissima trasmissione televisiva di Rai 3Samarcanda, dedicata all’omicidio di Giovanni Bonsignore, scagliandosi contro Falcone che, a suo dire, avrebbe “tenuto chiusi nei cassetti” una serie di documenti riguardanti i delitti eccellenti della mafia.[18] Le accuse erano indirizzate anche verso il giudice Roberto Scarpinato, oltre al procuratore Pietro Giammanco, ritenuto vicino ad Andreotti. Si asseriscono responsabilità politiche alle azioni della cupola mafiosa (il cosiddetto “terzo livello”) ma Falcone dissente sostanzialmente da queste conclusioni sostenendo, come sempre, la necessità di prove certe e bollando simili affermazioni come “cinismo politico”. Rivolto direttamente a Orlando, dirà: “Questo è un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario che noi rifiutiamo. Se il sindaco di Palermo sa qualcosa, faccia nomi e cognomi, citi i fatti, si assuma le responsabilità di quel che ha detto. Altrimenti taccia: non è lecito parlare in assenza degli interessati”.La polemica ha continuato ad alimentarsi anche dopo la morte di Falcone; in particolare, la sorella Maria Falcone in un collegamento telefonico con il programma radiofonico Mixerha accusato Orlando di aver infangato suo fratello: «hai infangato il nome, la dignità e l’onorabilità di un giudice che ha sempre dato prova di essere integerrimo e strenuo difensore dello Stato contro la mafia […] lei ha approfittato di determinati limiti dei procedimenti giudiziari, per fare, come diceva Giovanni, politica attraverso il sistema giudiziario».
In un’intervista a Klauscondicio, Leoluca Orlando ha dichiarato di non essersi pentito riguardo alle accuse che rivolse a Falcone.Nel settembre 1991 Salvatore Cuffaro, all’epoca deputato regionale della Democrazia Cristiana e anni dopo condannato per mafia, intervenne a una puntata speciale della trasmissione televisiva Samarcanda condotta da Michele Santoro in collegamento con il Maurizio Costanzo Show e dedicata alla commemorazione dell’imprenditore Libero Grassi, ucciso da Cosa Nostra. In quella occasione, Cuffaro – presente tra il pubblico – si scagliò con veemenza contro la trasmissione (tra i cui ospiti era presente Falcone), sostenendo come le iniziative portate avanti da un certo tipo di “giornalismo mafioso” fossero degne dell’attività mafiosa vera e propria, tanto criticata e comunque lesive della dignità della Sicilia. Cuffaro parlò di certa magistratura “che mette a repentaglio e delegittima la classe dirigente siciliana”, con chiaro riferimento a Mannino, in quel momento uno dei politici più influenti della DC.Con sentenza numero 1742 del 2013 il Tribunale civile di Palermo ha disposto un risarcimento in favore di Cuffaro da parte di Antonio Di Pietro, che aveva linkato sul proprio sito Internet il video dell’intervento di Cuffaro a Samarcanda con il titolo “Costanzo Show: Totò Cuffaro aggredisce Giovanni Falcone”. Nella sentenza il Tribunale ha accertato che “non si evince un attacco diretto di Cuffaro nei confronti del giudice Falcone” e che lo stesso, semmai, si era scagliato contro un’inchiesta, peraltro archiviata pochi giorni dopo la trasmissione, e contro il Magistrato che la conduceva, persona diversa da Giovanni Falcone.Nel clima determinatosi nel periodo 1988-1991 Giovanni Falcone spendeva ogni sua energia nel lavoro investigativo sui cosiddetti “delitti politici” siciliani (gli omicidi di Michele Reina, di Piersanti Mattarella, di Pio La Torre e del suo autista Rosario Di Salvo), sottoscrivendo infine la requisitoriacon cui, il 9 marzo 1991, la Procura di Palermo chiedeva per quei delitti il rinvio a giudizio dei vertici di Cosa Nostra insieme a quello di esponenti dell’estrema destra quali Giuseppe Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, questi ultimi indicati quali esecutori materiali dell’omicidio Mattarella (vennero poi assolti nel processo svoltosi, nella parte che li riguardava, dopo l’uccisione di Falcone).
Negli stessi anni conduce insieme al capitano Arma dei Carabinieri Angelo Jannone – allora in servizio a Corleone – delle indagini finalizzate alla ricerca del latitante Totò Riina, autorizzando la collocazione di microspie presso le abitazioni di alcuni familiari e presso lo studio del commercialista Giuseppe Mandalari a Palermo. Soprattutto le intercettazioni presso lo studio di Mandalari metteranno in luce una serie di collusioni massoniche e politiche che furono ritenute particolarmente importanti e delicate dal magistrato, che avvertì il capitano Jannone: “chi tocca questi fili muore”.La polemica sancì la rottura del fronte antimafia, Cosa nostra sembrò trarre vantaggio della tensione strisciante nelle istituzioni, cosa che avvelenò sempre più il clima attorno a Falcone, isolandolo. Alle seguenti elezioni dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura del 1990, Falcone venne candidato per le liste collegate “Movimento per la giustizia” e “Proposta 88”, ma non viene eletto. Fattisi poi via via sempre più aspri i dissensi con Giammanco, Falcone optò per accettare la proposta di Claudio Martelli, allora vicepresidente del Consiglio e ministro di Grazia e Giustizia ad interim, a dirigere la sezione Affari Penali del ministero.La vicinanza di Falcone al socialista Claudio Martelli costò al magistrato siciliano violenti attacchi da diversi esponenti politici. In particolare, l’appoggio di Martelli fece destare sospetti da parte del Partito Comunista Italiano e di altri settori del mondo politico (Leoluca Orlando in primis, oltre a qualche altro esponente della DC e diversi giudici aderenti a Magistratura Democratica) che fino ad allora avevano appoggiato una possibile candidatura di Falcone. Inoltre, alcuni magistrati, tra i quali lo stesso Paolo Borsellino, criticarono poi il progetto della procura nazionale antimafia, denunciando il rischio che essa costituisse paradossalmente un elemento strategico nell’allontanamento di Falcone dal territorio siciliano e nella neutralizzazione reale delle sue indagini. Il 10 agosto 1991, ai funerali in Calabria di Antonino Scopelliti, Falcone sentì di essere in pericolo e confida al fratello del collega: «Se hanno deciso così non si fermeranno più… ora il prossimo sarò io».
Il 15 ottobre 1991 Giovanni Falcone venne convocato davanti al CSM in seguito all’esposto presentato il mese prima (l’11 settembre) da Leoluca Orlando. L’esposto contro Falcone era il punto di arrivo della serie di accuse mosse da Orlando al magistrato palermitano, il quale ribatté ancora alle accuse definendole «eresie, insinuazioni» e «un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario». Sempre davanti al CSM Falcone, commentando il clima di sospetto creatosi a Palermo, affermò che «non si può investire nella cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è l’anticamera del khomeinismo».Il 12 gennaio 1992 in una trasmissione televisiva su RaiTre a seguito di una domanda posta da una persona del pubblico affermò:
«Questo è il paese felice in cui se ti si pone una bomba sotto casa e la bomba per fortuna non esplode, la colpa è la tua che non l’hai fatta esplodere.»
In riferimento all’attentato Attentato dell’Addaura che subì 3 anni prima. In questo contesto fortemente negativo, nel marzo 1992 viene assassinato Salvo Lima, omicidio che rappresenta un importante segnale dell’inasprimento della strategia mafiosa la quale rompe così gli equilibri consolidati e alza il tiro verso lo Stato per ridefinire alleanze e possibili collusioni. Falcone era stato informato poco più di un anno prima con un dossier dell’Arma dei Carabinieri del ROS che analizzava l’imminente neo-equilibrio tra mafia, politica e imprenditoria, ma il nuovo incarico non gli aveva permesso di ottemperare a ulteriori approfondimenti. Il ruolo di “superprocuratore” a cui stava lavorando avrebbe consentito di realizzare un potere di contrasto alle organizzazioni mafiose sin lì impensabile. Ma ancor prima che egli vi venisse formalmente indicato, si riaprirono ennesime polemiche sul timore di una riduzione dell’autonomia della Magistratura e una subordinazione della stessa al potere politico. Esse sfociarono per giunta in uno sciopero dell’Associazione Nazionale Magistrati e nella decisione del Consiglio Superiore della Magistratura che per la carica gli oppose inizialmente Agostino Cordova.Sostenuto da Martelli, Falcone rispose sempre con lucidità di analisi e limpidezza di argomentazioni, intravedendo, presumibilmente, che il coronamento della propria esperienza professionale avrebbe definito nuovi e più efficaci strumenti al servizio dello Stato. Eppure, nonostante la sua determinazione, egli fu sempre più solo all’interno delle istituzioni, condizione questa che prefigurerà tristemente la sua fine. Emblematicamente, Falcone ottenne i numeri per essere eletto Superprocuratore il giorno prima della sua morte. Nell’intervista concessa a Marcelle Padovani per Cose di Cosa Nostra, Falcone attesta la sua stessa profezia: “Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.”Mancavano solo undici giorni all’attentato “quando in un convegno organizzato dall’AdnKronos a Roma, giunse un foglietto anonimo nelle mani di Falcone, e quel foglietto lo avvertiva”.
Strage di Capaci “Mi hanno delegittimato, stavolta mi ammazzano”
In effetti, alcuni giorni prima dell’attentato Falcone dichiarò: “Mi hanno delegittimato, stavolta i boss mi ammazzano”. Falcone venne assassinato in quella che comunemente è detta strage di Capaci, il 23 maggio 1992. Stava tornando, come era solito fare nei fine settimana, da Roma. Il jet di servizio partito dall’aeroporto di Ciampino intorno alle 16:45 arriva all’aeroporto di Punta Raisi dopo un viaggio di 53 minuti. Il boss Raffaele Ganci seguiva tutti i movimenti del poliziotto Antonio Montinaro, il caposcorta di Falcone, che guidò le tre Fiat Croma blindate dalla caserma “Lungaro” fino a Punta Raisi, dove dovevano prelevare Falcone; Ganci telefonò a Giovan Battista Ferrante (mafioso di San Lorenzo, che era appostato all’aeroporto) per segnalare l’uscita dalla caserma di Montinaro e degli altri agenti di scorta. Appena sceso dall’aereo, Falcone si sistema alla guida della Fiat Croma bianca e accanto prende posto la moglie Francesca Morvillomentre l’autista giudiziario Giuseppe Costanza va a occupare il sedile posteriore. Nella Croma marrone c’è alla guida Vito Schifani, con accanto l’agente scelto Antonio Montinaro e sul retro Rocco Dicillo, mentre nella vettura azzurra ci sono Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. Al gruppo è in testa la Croma marrone, poi la Croma bianca guidata da Falcone, e in coda la Croma azzurra, che imboccarono l’autostrada A29 in direzione Palermo. In quei momenti, Gioacchino La Barbera (mafioso di Altofonte) seguì con la sua auto il corteo blindato dall’aeroporto di Punta Raisi fino allo svincolo di Capaci, mantenendosi in contatto telefonico con Giovanni Brusca e Antonino Gioè(capo della Famiglia di Altofonte), che si trovavano in osservazione sulle colline sopra Capaci.
Tre, quattro secondi dopo la fine della loro telefonata, alle ore 17:58, Brusca azionò il telecomando che provocò l’esplosione di 1000 kg di tritolo sistemati all’interno di fustini in un cunicolo di drenaggio sotto l’autostrada:la prima auto, la Croma marrone, venne investita in pieno dall’esplosione e sbalzata dal manto stradale in un giardino di olivi a più di dieci metri di distanza, uccidendo sul colpo gli agenti Montinaro, Schifani e Dicillo; la seconda auto, la Croma bianca guidata dal giudice, avendo rallentato, si schianta invece contro il muro di cemento e detriti improvvisamente innalzatosi per via dello scoppio, proiettando violentemente Falcone e la moglie, che non indossano le cinture di sicurezza, contro il parabrezza; rimangono feriti gli agenti della terza auto, la Croma azzurra, che infine resiste, e si salvano miracolosamente anche un’altra ventina di persone che al momento dell’attentato si trovano a transitare con le proprie autovetture sul luogo dell’eccidio. La detonazione provoca un’esplosione immane e una voragine enorme sulla strada. In un clima irreale e di iniziale disorientamento, altri automobilisti e abitanti dalle villette vicine danno l’allarme alle autorità e prestano i primi soccorsi tra la strada sventrata e una coltre di polvere.
Circa venti minuti dopo, Giovanni Falcone viene trasportato sotto stretta scorta di un corteo di vetture e di un elicottero dell’Arma dei Carabinieri presso l’ospedale civico di Palermo. Gli altri agenti e i civili coinvolti vengono anch’essi trasportati in ospedale mentre la polizia scientifica eseguì i primi rilievi e il corpo nazionale dei Vigili del Fuoco provvide all’estrazione dalle lamiere i cadaveri – resi irriconoscibili – degli agenti della Polizia di Stato di Schifani, Montinaro e Dicillo. Intanto la stampa e la televisione iniziarono a diffondere la notizia di un attentato a Palermo e il nome del giudice Falcone trova via via conferma. L’Italia intera sgomenta, trattiene il fiato per la sorte delle vittime con tensione sempre più viva e contrastante, sinché alle 19:05, a un’ora e sette minuti dall’attentato, Giovanni Falcone muore dopo alcuni disperati tentativi di rianimazione, a causa della gravità del trauma cranico e delle lesioni interne. Francesca Morvillo morirà anch’ella, intorno alle 22:00. La salma del magistrato italiano venne tumulata in una tomba monumentale nel cimitero di Sant’Orsola a Palermo. Nel giugno 2014 la salma venne poi traslata nella Chiesa di San Domenicosituata nel capoluogo siciliano.
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