Giallo Yara, La Svolta: “Bossetti è innocente, Vi svelo chi ha ucciso Yara” La dichiarazione choc
Spesso mi trovo a rispondere alla domanda “perché hai voluto scrivere questo libro”, e mi rendo conto che ogni volta la risposta cambia, credo che questo sia dovuto al desiderio di compiacere l’interlocutore. Di fondo però la vera ragione è: un senso di inquietudine nel sapere di aver lavorato tanto sulle carte e di aver travato molti elementi che se presentati in aula durante i processi, forse Massimo Bossetti non sarebbe nelle patrie galere.
Confesso che questi elementi io li ho trovati oltre 2 anni fa, ho sottoposto le mie relazioni ai famigliari di Massimo Bossetti, pur cosciente che poco potevano fare loro, ma nella speranza invece che sottoponendole il 26 settembre 2016 alla difesa molto avrebbero potuto fare, invece, a quel che risulta a me, delle mie relazioni, nulla è stato fatto dagli avvocati della difesa in questi due anni, da qui la consapevolezza che se non scrivevo un libro questi risultati delle mie analisi sarebbero rimasti nel cassetto a vita.
Allora perché non scrivere un libro e portare a conoscenza di tutti questi elementi? Credo che questo sia il vero motivo che mi ha spinto a scrivere il libro IN NOME DEL POPOLO ITALIANO. Ora che il libro è uscito un’altra ragione ha preso il sopravvento sulla prima ovvero “ridare dignità ai processi e a alle sentenze”.
Non è dignitoso sapere che il DNA estrapolato dai leggings e dagli slip della giovane Yara, non ha rispettato le procedure previste dal nostro Codice di Procedura Penale, come è preoccupante scoprire che i consulenti della procura, incaricati di analizzare i DNA raccolti, sbaglino l’analisi del DNA di Natan Gambirasio, un Dna raccolto con un tampone sterile in quantità abbondante e conservato in una provetta sterile, c’è da domandarsi come abbiano fatto a non sbagliare quello di Ignoto 1 che certamene era per quantità molto inferiore, per qualità degradato e per giunta misto. Come non è dignitoso trovare documenti che dimostrano che Yara è certamente stata rivestita. ( Continua dopo la foto)
Potrei andare avanti in questo lungo elenco di elementi che già singolarmente tolgono dignità ai processi e alle sentenze contro Massimo Bossetti. A pochi giorni dall’uscita del mio libro le reazioni sono state delle più disparate, dallo scetticismo più becero, che porta alcuni a ipotizzare una mia forma di megalomania che mi avrebbe spinto a scrivere cose non esatte, fino allo stupore più sfrenato tanto da portare lettori a passare notti insonni.
Per buona pace di tutti vorrei che il mio libro diventasse lo strumento per arrivare ad una verità che se non può essere processuale, possa almeno essere morale, per questa ragione vi invito a non fermarvi alle parole, cercate le verifiche, leggete il libro e poi chiedete agli addetti ai lavori di dimostrare anche loro, come ho fatto io con documenti veri, che “Infanti sbaglia”.
Un esempio su tutti. Qualcuno ha provato a chiedere all’avvocato Salvagni (della difesa Bossetti) se fosse vero che mancano le notifiche sui leggings e sugli slip di Yara, e come mai non avessero avanzato richiesta di nullità. La sua risposta è stata: noi abbiamo sollevato sin da subito tutte le nullità, facendo intendere che avessero sollevato anche nullità per la mancanza delle notifiche sugli esami dei leggings e degli slip, salvo poi, su invito mio di mostrare i documenti che dimostrino ciò, inviare un passaggio della sentenza di primo grado dove i giudici scrivono che le parti sono state ritualmente avvisate come prevedono le norme di legge.
Ebbene nel libro io già faccio notare che quella dichiarazione è inesatta e toglie molta dignità a quella sentenza, ma quello che più mi sconcerta è che l’avvocato non invia alcun documento dove lui fa una richiesta di nullità sul caso specifico oppure anche solo una notifica su quegli indumenti, ciò a riprova che anche le mancate notifiche sono un fatto vero.
Quindi non accontentatevi, leggete il mio libro, verificate ogni singolo passaggio e scoprirete che chiedere dignità nei processi e nelle sentenze partendo da quelli di Massimo Bossetti non è solo un semplice schieramento tra innocentisti e colpevolisti, ma un dovere civile.
2 – “IN NOME DEL POPOLO ITALIANO”: MASSIMO BOSSETTI ACCUSATO DELL’OMICIDIO DI YARA GAMBIRASIO FORMATO KINDLE
3 – CAPITOLO NOVE. IL ROMANZO, INDIZI CONVERGENTI E CONCORDANTI DAL LIBRO “IN NOME DEL POPOLO ITALIANO” DI CARLO INFANTI
Voglio essere sincero: non ho mai capito perché dopo la maturità classica, scelsi di iscrivermi a Giurisprudenza. Adesso che ci penso, fui influenzato da un pensiero di Re Agesilao II il quale, papale papale, un giorno scrisse: “Dove troverai le leggi più numerose, lì troverai anche le più grandi ingiustizie.”
Il titolo della mia tesi di laurea? In nome del Popolo Italiano. Era una provocazione, naturalmente. Scelsi questo tema perché un giorno vidi effigiata, sulla copertina di un importante settimanale italiano, una vignetta con la tradizionale bilancia della Giustizia posta sul muro di un’aula di un tribunale italiano, e la scritta: La legge è uguale per tutti. Appena sotto la bilancia, ecco il titolo della vignetta: Umorismo italiano!
Il mio percorso in facoltà fu molto buono, con ottimi voti. Anche la mia tesi di laurea fu convincente, al punto di ottenere un insperato 110, cum laude, e l’onore della pubblicazione! Dopo la laurea e la relativa abilitazione con l’iscrizione all’Ordine degli Avvocati, ecco il momento della scelta: applicarmi nel Civile o nel Penale? Entrare in Magistratura Inquirente o Magistratura Giudicante? Bella domanda!
Alla fine ho scelto di applicarmi nella Magistratura Civile. Pentito? Certo. Avrei dovuto scegliere il Penale. Psicologicamente è un’altra emozione. Ma ormai è troppo tardi!
Alle prese ogni giorno con contratti, mutui, separazioni e divorzi, risarcimento danni, responsabilità professionale, dopo alcuni decenni di durissimo e diuturno lavoro, mi trovo spesso a invidiare i colleghi della Procura Penale della città dove lavoro. Non che il loro lavoro sia tutto rose e fiori, intendiamoci. Ma sul piano personale le soddisfazioni sono diverse.
Settimanalmente, con alcuni colleghi delle Procura delle città vicine alla mia, ci troviamo per la tradizionale pizza del sabato sera. Mai più di dieci e in territorio neutro. E quasi sempre la nostra meta è una pizzeria della pianura padana, intendendo con questo termine un paesino sperduto della bassa bergamasca. ( continua dopo la foto)
I clienti abituali come noi del locale, ormai ci conoscono bene. Spesso ci accolgono con un applauso! Non era così le prime volte quando addirittura sembravano intimoriti dalla nostra presenza. Il padrone di casa ci ha affibbiato fin da subito un soprannome: “I Dieci Comandamenti!” L’unica persona che manca tra questa ormai non più improvvisata combriccola, è un prete! Sarebbe stato il massimo. Tra di noi anche la presenza di quattro colleghe: Allegra, Zelinda, Calliope e Chiara. Gli altri 4 colleghi li identificherò durante il racconto.
Parliamoci chiaro: le donne presenti in Magistratura sono un elemento fondamentale. Dirette, tenaci, determinate, non mi meraviglio più quando a loro il Procuratore Generale affida alcuni reati importanti da perseguire. Certo, mi fa sempre sensazione sentirle parlare con termini tipo: reato connesso, persona informata sui fatti, mandato di cattura e via discorrendo.
Soprattutto Chiara che non dovrebbe fare il magistrato. Non perché non sia brava, anzi, credo che sia un fenomeno, ma la sua bellezza è un’istigazione a delinquere per molti uomini, che pur di essere indagati da lei potrebbero commettere qualsiasi reato. Anche ammirarle con la toga mi fa sempre un certo effetto. Ma vedendole tutte eleganti, truccate, disinvolte, sicure di sé quando sono in compagnia con noi, vi assicuro che la sensazione cambia, è certamente diversa.
Maledizione! È mai possibile che anche davanti a una pizza fumante si debba sempre parlare di lavoro? Io me ne sto quasi sempre in silenzio. A chi possono interessare le separazioni o l’eredità? Ma ormai è troppo tardi per cambiare. Soprattutto quando siamo in prossimità di una sentenza della Suprema Corte di Cassazione, come nel caso del delitto avvenuto nella bergamasca ormai quasi una decina di anni fa, e che è diventato un argomento gettonatissimo. Una storia incredibile!
In carcere, ad attendere la sentenza della Suprema Corte di Cassazione, dopo l’ergastolo comminato prima dalla Corte d’Assise di Bergamo e successivamente confermato dalla Corte d’Assise d’Appello di Brescia, Massimo Giuseppe Bossetti. La vittima? Una ragazzina di nome Yara Gambirasio di Brembate di Sopra, in provincia di Bergamo.
Un simile caso non poteva certo non accendere la fantasia dell’opinione pubblica. Lei, la classica ragazzina che studia dalle suore. Adorata dalle amiche e dalle insegnanti, ama lo sport, nel nostro caso la ginnastica artistica, e che ha tutta la vita davanti a sé per sognare e amare.
Lui, il classico bergamasco di mezza età, tutto lavoro, famiglia e nessuna distrazione di troppo. Di non eccelsa statura, che colpisce è lo sguardo di ghiaccio. Un mix incredibile tra carnefice e vittima, perfetto per accendere la passione tra il pubblico schierato in egual misura tra innocentisti e colpevolisti.
Non essendoci nel nostro gruppo di magistrati dei colleghi impegnati nel processo a Massimo Giuseppe Bossetti, questo intricato caso giudiziario è stato più volte da noi dibattuto davanti alla solita pizza fumante. A proposito di pizza, la mia preferita è la quattro stagioni. Pazienza se poi il cameriere mi ribadisce ogni volta che le quattro stagioni non ci sono più.
Anche tra noi esiste lo schieramento tra innocentisti e colpevolisti. Alcuni sono ferocemente critici per le spese ingenti supportate dai cittadini per le indagini, soprattutto per le analisi del Dna. Altri sono convinti che tutto quanto è stato trovato per accusare Massimo Bossetti, e riportato nelle motivazioni delle due sentenze di condanna all’ergastolo, non trova riscontro nei fatti con la certezza assoluta. ( continua dopo la foto)
Perché, allora, si è giunti nei due processi alla condanna dell’imputato? Secondo i colleghi i motivi sono molteplici, non ultimo quello che dopo un simile sforzo di mezzi, di persone e di tempo, un colpevole bisognava pur trovarlo! In questo caso chi meglio di Massimo Giuseppe Bossetti? Persino nel fisico incarna l’ “assassino perfetto” di una giovane e bella ragazzina.
Senza parlare della stampa. Un male necessario. Ma alcuni particolari, certi giudizi, alcune informazioni, potevano risparmiarcele. La prova del Dna, se è vero che è una prova scientifica, perché ha diviso così fortemente l’accusa e la difesa, oltre che l’opinione pubblica? Ma, soprattutto, perché negare all’imputato una super perizia?
La scienza non può essere un semplice atto di fede. La scienza va sempre messa in discussione, va verificata, controllata, contestata. Non solo: deve anche essere dimostrata. Non mi sembra che nei due processi la qualcosa sia avvenuta.
Sabato scorso, nel viaggio di ritorno verso casa, a notte fonda, ho riflettuto sul dibattito nato tra noi proprio a proposito del delitto bergamasco. La sentenza della Suprema Corte di Cassazione è ormai alle porte. Logico e scontato parlare anche dell’esito possibile della sentenza, veramente capitale, per il Bossetti.
Scoprii, con un certo stupore, che solo due dei miei colleghi sono convinti che la sentenza all’ergastolo sarà confermata. La sorpresa non è per l’esigua minoranza colpevolista, ma per la sconcertante motivazione addotta. “Anche solo far rifare il processo, significherebbe ammettere di aver sbagliato indagine. Immagini il casino che scatenerebbe una simile decisione?”
Allora la condanna del Bossetti rappresenta più la difesa della categoria, ovvero della Magistratura nella sua interezza, e non la convinzione che l’imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio.” sia colpevole? Per fortuna quasi tutti rifiutavano l’idea della difesa della categoria. Quelli convinti che la Cassazione deciderà di far rifare il processo, identificano nella controversa analisi del Dna la motivazione vera.
Curiosamente, però, nessuno di essi ha posto l’accento sul movente, del quale non si vede traccia negli atti del processo e nelle motivazioni delle sentenze. Sulla dinamica del delitto, nessuna ipotesi. Il luogo dell’avvenuto crimine? Idem. Tutte domande nemmeno poste. Per non parlare di indagini su piste alternative; quali sono state prese in considerazione dagli inquirenti?
Mezz’ora di viaggio ed eccomi a casa. Saluto mia moglie, sempre in paziente attesa del mio ritorno, e faccio un salto nelle stanze dei nostri figli: un maschio e una femmina. Lo faccio sempre per accertami che non abbiano fatto tardi. Tutto questo sotto lo sguardo preoccupato della moglie.
“Ma sei rincoglionito? Che cosa hai bevuto, cosa hai mangiato?”, sono alcune battute che periodicamente l’amata consorte mi lancia. Che stupido! Da alcuni anni siamo sposati e forse presto saremo nonni! Poi subito a letto. Il mattino dopo mia moglie mi sveglia di brutto guardandomi stranita.
“Ma che razza di sogno hai fatto stanotte? Sei troppo stressato. Abbiamo bisogno di riposo entrambi. Che ne dici se partiamo per una crociera, sempre promessa e mai compiuta?” “Perché se sono io lo stressato parli al plurale?”, faccio io di rimando. Era ovvio che il suo vero interesse non era la mia salute ma la crociera. “Dammi subito il mio block notes e la penna prima che mi scordi quanto ho sognato”.
Non so quanto sia vera l’affermazione di Arthur Schopenhauer quando annotò sul suo diario che: “La vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro: leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare.” Sarà bene, comunque, che lo trascriva per poi rileggerlo in bell’ordine il breve sogno di questa notte, interrotto sul più bello dal risveglio “inopportuno”!
Non ho alcun dubbio che quanto ora vi racconto, è frutto di un sogno, una fantasia. Ma, secondo la teoria freudiana “i sogni sono desideri,” che, generalmente, sono tratti dagli episodi più recenti della vita quotidiana.
Ora, visto che è un sogno, questi ricordi dovrei sfogliarli a caso per tener fede all’aforisma di Schopenhauer sopra citato. Però mi rendo conto che riflettono un caso reale. Ma tant’è. Faccio di necessità virtù e così scoprirete che alcune volte lo racconterò a ruota libera scrivendo immagini parziali, altre volte come in un film. Starà a voi riordinarli nella vostra mente.
La prima immagine che ricordo del sogno è quella di una stanza di ospedale dove una donna attende di partorire. Visibilmente preoccupata, già sa che sarà un parto gemellare. La data di quel giorno è annotata in bella mostra sulla cartella appoggiata sul comodino: il 28 ottobre 1970. Solo in sogno può avvenire che lo sguardo si posi su un foglio posto sul tavolo in Procura dove appaiono, in bell’ordine alfabetico, un elenco di cognomi e nomi con a fianco la data di nascita. Alla lettera “B” ecco il nome di Bonaldi Giacomo, nato il 28 ottobre 1970.
Un nome fra i tanti. Accanto al fascicolo dei nomi trovo una cartella con scritto sul frontespizio: Sommarie Informazioni Testimoniali (S.I.T.). L’ apro ed ecco un foglio con scritto ancora il nome di “Bonaldi Giacomo, nato il 28 ottobre 1970 e residente in via Rampinelli 40, a Brembate di Sopra (Bg).” Improvvisamente, sempre in sogno che quasi mai segue una logica basata sul luogo e sul tempo, vedo una siepe nel giardino del civico numero 40 di via Rampinelli di Brembate di Sopra.
Al di là della siepe una ragazzina che fa esercizi di ginnastica artistica. Sorride e saluta due ragazzi: uno dalla apparente età di circa 20 anni; l’altro un probabile suo coetaneo. C’è anche un terzo ragazzo, giovanissimo di circa 8-9 anni, non certo residente in quella casa perché chiede ai presenti il permesso di giocare. Con uno stacco netto dalla scena, mi trovo nella sede della Polizia Stradale di Bergamo dove l’Ufficiale più alto in grado dava lettura di una informativa sulle vetture transitate per le vie adiacenti al Centro Sportivo di Brembate di Sopra.
Con l’ausilio di un televisore, ecco apparire sullo schermo, l’orario di transito di un veicolo sul quale non era stata posta una particolare attenzione: un Pick-up grigio.
Veloce consultazione della targa dello stesso ed ecco il nome del proprietario: un’azienda di Infissi d’Alluminio di proprietà dei fratelli Bonaldi: Giacomo, Giulio e Nicol. Certo che in sogno certe concordanze appaiono quantomeno curiose. La stessa vettura, successivamente nel sogno, mi appariva ferma in via Rampinelli in Brembate di Sopra tra i numeri 40 e 48. L’orario? Tra le 18.30/18.40 .
Chissà quanto dura un sogno? Forse nei sogni il tempo non esiste. Frutto della nostra psiche, tutto appare come un susseguirsi di avvenimenti a volte senza capo né coda. Come quando in uno dei tanti sogni mi trovai di colpo alla guida della mia vettura e sono superato da un corteo di macchine dei Carabinieri e della Polizia a sirene spiegate. “All’Isola, all’Isola!” urla un militare alla guida di una di esse, a un suo collega che lo aveva affiancato.
“Oh, mio Dio! Ma di quale isola stanno parlando?” Penso a Montisola, sul lago d’Iseo che dista una quarantina di chilometri. Ho difficoltà a seguire le ululanti vetture dei militi in divisa. Per fortuna il corteo di macchine rallenta la folle corsa. Poi, di colpo si spengono le sirene e guardandomi attorno scopro da un cartello stradale che non c’è nessuna isola da visitare nei dintorni. Siamo semplicemente a “Chignolo d’Isola”! Alla periferia del paese, in un campo che sembra da tempo abbandonato, mi aggrego al corteo di persone che si addentrano a piedi per raggiungere un posto dove fa capannello un gruppo di militari e civili.
Mi avvicino non senza difficoltà. Un Carabiniere mi chiama Dottore, e si offre di accompagnarmi. Allora è vero che nella maggior parte dei casi, alla gente, la nostra professione appare stampata in faccia. In un silenzio irreale vedo il corpo di una ragazza ridotta quasi a uno scheletro, supina, con le braccia in alto sopra la testa, le gambe divaricate e un ciuffo d’erba tra le dita. La identificano dei vestiti che indossa.
Quando torno verso la mia vettura, capto uno scambio di battute tra due poliziotti. Uno di essi chiede al collega: “Secondo te Yara è qui da tre mesi o l’hanno portata lì dopo?” Il secondo agente risponde: “Dopo… dico… dopo lì!”, indicando il luogo del ritrovamento. Quindi, gli inquirenti avevano il sospetto che la piccola ginnasta non era morta in quel campo?
Proprio mentre spero di scoprire dove fosse stata tenuta la ragazza prima di arrivare in quel luogo, mi sveglio di soprassalto! È sempre così, sul più bello si spegne tutto. Annoto quanto ho sognato e aspetto sabato prossimo per informare i colleghi dello strano sogno. Strano mica tanto.
Quando li informo, portando con me gli appunti (piuttosto scarsi), sorridono. “Si vede che fai il civile. Hai almeno letto le carte del processo?”, rimbecca Chiara guardando gli altri miei colleghi. Certo, rispondo piccato. In realtà non era vero, ma non potevo certo dirle che stavo riflettendo sulla base di un sogno. “Delle carte cosa ti ha colpito maggiormente?” rilancia Chiara. “Il cattivo uso della lingua italiana”, rispondo secco. Risata generale.
A parte gli scherzi. Sono rimasto colpito dall’enorme quantità di documenti e di lavoro che hanno prodotto alla Procura. Mi domando come può aver fatto il pool della difesa a leggere e studiare più di 60.000 pagine di documenti, di intercettazioni, di perquisizioni, di Sommarie Informazioni Testimoniali (S.I.T.) e quant’altro, in 20 giorni, e depositare delle memorie difensive adeguate alla vasta indagine perseguita dalla Procura di Bergamo?
In 20 giorni non sarebbe neppure possibile fare le fotocopie delle 60.000 pagine! Non parliamo poi della preparazione al processo. In soli 4 mesi il pool della difesa dovrebbe studiare i documenti frutto del duro lavoro di oltre 4 anni portato a termine da centinaia di Poliziotti, dai Carabinieri, dalla Guardia di Finanza, dai consulenti tecnici, i periti e il lavoro della Polizia Giudiziaria in toto. Senza contare le inchieste dei giornalisti!
Troppo grande il divario di tempo e di mezzi concesso alla Procura a differenza di quello a disposizione della difesa, per poter pensare di affrontare un processo paritario. A questo punto sorge logica la domanda: la Procura ha avuto modo di indagare su altre piste alternative, come vuole la legge, senza nulla togliere all’immane lavoro da loro compiuto? Quanto sopra appena descritto, potrebbe indurre una Suprema Corte di Cassazione a invalidare il processo? Temo proprio di no! Tutti annuiscono.
“Scusa”, interviene la collega Zelinda scettica come sempre e con quel tono inquisitorio che non la abbandona mai. “Come fai ad essere così informato su questo aspetto delle Indagini?” “Cari colleghi”, affermo con un tono tra il serio e il faceto “ho scoperto delle fonti sicure e conosco aspetti che voi nemmeno immaginate”. Risata generale! “Racconta, racconta”, dicono in coro. “Come si chiama l’uccellino che ha cinguettato?” “Calma, tutto a suo tempo”.
Inutile dire che sono incuriositi da quell’ipotetico uccellino. Tutti mi guardano allibiti. In verità loro pensavano che io avessi veramente conosciuto un informatore e non potevano immaginare che quello che dicevo loro era solo il frutto di sogni, di semplici sensazioni e di qualche dato raccolto qua e là.
Come ben sapete il nuovo codice di Procedura Penale permette alla difesa di compiere indagini atte a sostenere le proprie ragioni difensive. Però mi dovete spiegare come sia stato possibile alla difesa leggere e soprattutto studiare 60.000 pagine di documenti prodotti dalla Procura in così poco tempo. Mi domando anche quali indagini difensive avrebbe potuto compiere la difesa in un tempo così ristretto.
Si può solo sperare che l’abbia fatto la Procura, che abbiano lavorato scrupolosamente senza tralasciare nessuna pista alternativa. Sulla determinazione della Procura di Bergamo nell’accusare Massimo Giuseppe Bossetti non ho alcun dubbio. Ma che abbiano anche indagato a fondo piste alternative qualche dubbio ce l’ho.
“La “Prova Regina”, mi è sembrato di capire, sulla quale appoggia tutto il processo è quella del Dna. Ora, da quanto ho sentito nella sentenza mi sembra che sia inoppugnabile il fatto che il Dna di “Ignoto 1” porti senza ombra di dubbio a Massimo Giuseppe Bossetti!”, afferma il collega Claudio Donati, per gli amici Cloude, considerato uno dei più ostinati inquirenti della Magistratura Italiana.
Rincara Chiara rivolgendosi a Claudio: “Sbaglio o, se ben ricordo, la mamma del Bossetti, Ester Arzuffi giurava e spergiurava di non aver mai avuto rapporti sessuali con quel Giuseppe Benedetto Guerinoni, il cui patrimonio genetico accoppiato con quello della mamma del Bossetti porta a “Ignoto 1”?” Rivolgendosi a me: “Ammetterai che è stata una figuraccia. Assolutamente indifendibile mi sembra… Se vuoi spiegaci questo incantesimo genetico.” E tutti in coro: “Sentiamo ora il magistrato civilista cosa ci racconta… O l’uccellino non ti ha ancora detto nulla?” Interviene a mia difesa la collega Calliope: “Forse la signora Arzuffi non ha mentito del tutto. Infatti , mi sembra di ricordare, che il patrimonio genetico della mamma del Bossetti, non ci sia in toto in “Ignoto 1”. Almeno mi sembra!”
Improvvisamente mi ritorna alla mente il sogno di quella donna, era un parto gemellare questo lo ricordo bene, ma quanti gemelli? Perché poi inaspettatamente il sogno si sposta su quel foglio con l’effige della Procura di Bergamo, con il nome di Bonaldi Giacomo nato il 28 ottobre 1970? Mentre sono perso nei miei pensieri sento che la collega Calliope dice una frase che interrompe per un attimo le mie riflessioni. “E se fosse un fratellastro”? Ripartono come un treno i miei pensieri. E se ci fosse un terzo gemello? E se la signora Arzuffi stesse mentendo per nascondere un segreto più grande di un semplice tradimento? Credo che la cessione di un figlio senza darlo in adozione, oltre a essere ripugnante sotto l’aspetto morale, lo è anche sotto il profilo legale.
Per fortuna questa ipotesi restò solo nei miei pensieri. Con i colleghi cercai di sviare affermando che non sono certo le notizie ormai note a tutti che mi lasciano perplesso. Penso, invece, che avrebbero dovuto approfondire meglio certi fatti e molti particolari che mi sembra non siano stati nemmeno presi in considerazione.
“Ad esempio?”, interviene a sorpresa la collega Allegra che, contrariamente al suo nome, vive le vicissitudini della quotidianità come le peggiori catastrofi al mondo. “Hanno scoperto l’ipotetica mamma di “Ignoto 1”, ribatto io, “dopo 3 giorni hanno arrestato il presunto colpevole. Una fretta quanto meno strana. Non hanno nemmeno minimamente pensato di intercettarlo e magari anche pedinarlo. Nemmeno la presunta mamma di “Ignoto 1” hanno voluto indagare, per conoscere meglio chi fosse. Io avrei approfondito meglio i trascorsi della signora Arzuffi. Nulla di ciò, almeno mi pare, è stato fatto. Individuata lei è stato subito arrestato lui”.
“Beh in effetti è strano.” interviene Hanry, per gli amici “il Giorgi”, un semplice diminutivo del suo cognome Giorgini che appare informatissimo sull’argomento. “Che il nome di Massimo Giuseppe Bossetti non figuri in nessuna dichiarazione tra le migliaia raccolte nelle Sommarie Informazioni Testimoniali (S.I.T.), o tra le centinaia di segnalazioni anonime. Nè tantomeno il suo nome era accostato al nome di Yara Gambirasio. Non solo. Tra i famigliari, amici, insegnanti e conoscenti della ragazza, il nome di Massimo Giuseppe Bossetti non è mai citato nemmeno lontanamente.”
Ormai erano passati quasi quattro anni dal delitto e lui il Bossetti continuava la sua vita tranquillamente. Perché non prendersi qualche giorno per approfondire meglio chi era? Mi rendo conto che questo argomento fa breccia in quasi tutti i miei colleghi tranne la solita scettica Zelinda che ribatte: “Ma cosa c’era da indagare, scusa. Trovano che il Dna della donna è identico a quello della mamma di “Ignoto 1”, che guarda caso conosceva il padre dell’assasino e per giunta, per andare al lavoro prendeva tutti i giorni l’autobus che guidava il padre di “Ignoto 1”? Lo capirebbe anche un bambino che si è trattato di un tradimento in piena regola!”
A questo punto scatta come una molla Ivan La Manna, del quale credo di aver sentito la sua voce forse due volte in tutti gli incontri fatti in pizzeria. Non si può certo affermare che sia un trascinatore. Eppure, è l’unico che non manca mai. Quando gli mandiamo un messaggio dopo 10 secondi ha già risposto. Lui è sempre presente. Forse perché, non essendo sposato, gode di quella immensa libertà che noi nemmeno possiamo immaginare.
“Scusa Zelinda”, – interviene Ivan, “a questo punto ti devo interrompere. Pochi mesi fa, leggevo un articolo sul settimanale Oggi a firma di Giangavino Sulas. A proposito del concepimento di Massimo Giuseppe Bossetti, scriveva testualmente: “Contrariamente a quanto affermato durante il processo di primo grado, il consulente della signora Arzuffi ha dimostrato che la famiglia Bossetti si è trasferita da Gorno, in alta Val Seriana, a Brembate di Sopra nel maggio del 1969.” Ma i gemelli Bossetti sono nati a fine ottobre del 1970; quindi la signora Arzuffi da molto prima del concepimento già non viveva in valle e soprattutto non prendeva l’autobus. La teoria del rapporto occasionale, come descritto durante il processo di primo grado, è assolutamente infondata con tanto di prove.”
Quanto appena esposto da Ivan La Manna mi parve subito estremamente interessate. Non tanto per la superficialità con cui la signora Arzuffi era stata trattata da tutti, ma perché la teoria del fratellastro o di un terzo gemello mi parve subito ancor più plausibile e per niente bizzarra. Ricordo che improvvisamente mi domandai: allora Bonaldi Giacomo, nato il 28 ottobre 1970, come Massimo Giuseppe e Letizia Bossetti, guarda caso vicino di casa di Yara Gambirasio, cosa c’entrava?
Pagato il conto alla romana, come da consolidata prassi, saluto i colleghi e mi dirigo verso la mia autovettura, quando giunto a pochi metri da essa sento la voce di Chiara:
“Stai già andando a casa?”Alla mia risposta affermativa, neanche il tempo di finire la frase che mi pone la domanda: “Tua moglie come sta? I ragazzi? Saranno anche cresciuti ormai.” Ammetto che mi parve molto strano. Non immaginavo nemmeno che lei sapesse che avevo due figli. Infatti, non ricordavo di averle mai parlato della mia famiglia durante le cene con i colleghi. E nemmeno mi ricordavo di aver avuto il piacere di confrontarmi neppure per motivi di lavoro. Anche se, lo ammetto, mi sarebbe piaciuto molto.
Risposi con aria soddisfatta, che ormai loro si erano fatti grandi ed erano entrambi sposati e che, forse, tra poco sarei diventato nonno. “Bellissimo! La vita passa veloce!” risponde Chiara. Poi, inaspettata, ecco una affermazione che ha avuto l’effetto di un fulmine a ciel sereno. “Come mai questo tuo interesse per la vicenda Bossetti?” Bella domanda! In verità non me l’ero mai posta. Certo non potevo giustificarmi con la storia dei sogni ricorrenti sull’argomento. La mia risposta fu sincera. Le dissi che, forse, non avevo mai smesso di pentirmi di non aver scelto la Magistratura inquirente, invece di fare il Magistrato giudicante nel civile.
Preoccupante e chiarissima la sua risposta di rimando: “Non lasciarti troppo coinvolgere dal processo a Massimo Giuseppe Bossetti. Potresti ritrovarti in qualche casino senza accorgerti.” “Perché mi dici questo, le replicai?” Era palese che sapesse cose che io ignoravo. Non tanto nel merito del processo e sulle relative indagini, ma su quanto ruotava attorno al quel processo e a tutta la vicenda. Ma erano semplici sensazioni le sue o c’era di più? Il suo guardarmi fisso negli occhi mi dava la conferma che, forse, era qualche cosa di più di una mia sensazione. Chiara mi tranquillizzò subito quando mi disse: “Sono solo sensazioni. Ma se vuoi dei documenti so chi può procurarteli.” Le risposi di no, promettendole che avrei sicuramente meditato sul suo avvertimento. La salutai con un certo imbarazzo e presi la via del ritorno a casa.
Durante il ritorno mi feci molte domande. Fantasticavo e cercavo di capire. Arrivai a casa dopo più di un’ora invece dei soliti 20 minuti. Non volevo interrompere il sogno a occhi aperti che si era creato nella mia mente. Mi chiedevo il perché di quella data del 28 ottobre 1970, identica tra il vicino di casa di Yara Gambirasio e i fratelli gemelli Massimo Giuseppe e Letizia Bossetti. E poi quel Pick-up della ditta di infissi. Poi le domande di Chiara. Tutto mi ruotava in testa come una pallina di roulette.
Arrivai a casa percorrendo la solita strada, le solite luci, la solita casa, la solita moglie. Questa volta però, stranamente, era già a letto, ancora sveglia. Nemmeno il tempo di mettere la testa sul cuscino che subito mi addormentai. Quando mi svegliai era ancora notte fonda. Vidi la luce accesa in cucina e non trovai accanto mia moglie. Poco dopo la vedo rientrare in camera con una fumante tazza di camomilla. Ero ancora nel dormiveglia. È bastato però che aprisse bocca per risvegliarmi dal torpore dal quale mi sentivo ancora prigioniero. “Come hai detto che si chiamava quello psicologo al quale ti eri rivolto alcuni anni fa?” “Perché mi fai questa domanda?”, risposi biascicando le parole. “Perché non hai fatto altro che girarti e rigirarti nel letto pronunciando frasi senza senso.”
Mentre mi porse la camomilla, le chiesi se ricordasse le mie frasi senza senso. “Parlavi di una telefonata anonima, piume di galline, di un furgone bianco, un pollaio, ripetevi sempre un nome Sulas. Domani cerca l’indirizzo dello psicologo e poi andiamo a fargli visita.” “Ecco, brava, – gli ribattei -. Domani lo cerco e poi andiamo insieme a fargli visita.” Prendo il block notes e annoto subito le parole pronunciate da mia moglie. Sopraffatto dal sonno mi riaddormento. Come quasi sempre avviene, il sogno non riprende da dove si è interrotto. Anzi: quasi sempre non riprende proprio!
La mattina dopo, rileggendo gli appunti, tento di ricostruire quel sogno, o se preferite quell’incubo. È sempre prodigioso riuscire a ricostruire, anche parzialmente, un sogno, una sensazione. Ricordo una cabina telefonica e un nome: Andrea Zilioli. Il suo nome non mi diceva nulla di particolare, avevo solo la sensazione che fosse un personaggio molto conosciuto nella zona. Benestante, mi pareva di ricordare che avesse a che fare con Giulio Bonaldi. Poi ecco il furgone, come quello di Massimo Giuseppe Bossetti, che scaricava in un container di raccolta rifiuti le macerie di laterizi, proprio nella azienda Andrea Zilioli. Ricordavo poi una fattoria con tanti animali e vedevo Giulio Bonaldi, con altre persone, accanto a un pollaio popolato di galline, anatre, oche e altri animali da cortile.
Solo un attimo il ricordo va su alcune fotografie riproducenti delle piume con la dicitura: “Reperto numero…”. Ricordo nel sogno una pizzeria dove Giulio Bonaldi ordinava 3 pizze e il viso del pizzaiolo che perplesso gli domandava: “Giulio, stai bene? Ti vedo molto agitato. Cosa ti è successo?”. Mentre continuavo a prendere appunti, mi sono ricordato di un pensiero di Mohandas Karamchand Gandhi, meglio conosciuto come Mahatma Gandhi: “Non permetterò a nessuno di passeggiare nella mia mente con i piedi sporchi.” Strano accostamento su quanto stavo annotando sul block notes.
Netto, invece, il ricordo di un furgone bianco che percorreva le strade della bergamasca. Non era però come quello di Massimo Giuseppe Bossetti che avevo visto centinaia di volte alla tv durante le innumerevoli trasmissioni sull’argomento. Era, invece, un furgone chiuso, che viaggiava per le strade della bergamasca ed entrava in un cantiere. Mi riaffiora poi nella mente il nome di Sulas, lo stesso del giornalista del quale ci aveva parlato Ivan La Manna la sera precedente. Veloce ricerca sul computer e scopro che aveva scritto molti reportage sul processo a Massimo Giuseppe Bossetti. Inutile la ricerca dell’articolo del quale aveva parlato Ivan.
Trovo, invece, 2 articoli del sopracitato giornalista del settimanale Oggi, che illustravano nuove piste inerenti al processo, uno dei quali aveva per titolo: “La pista dei due Imprenditori. Per trovare la ragazza cercare alla Z.A.” Incredibile l’altro articolo di Giangavino Sulas: “Yara, la difesa parte dal mistero delle tre piume.” Non poteva essere solo un caso quanto avevo appena letto. Troppe cose combaciavano tra i miei sogni e questi articoli. Paradossalmente gli stessi mi aiutavano a mettere ordine nei miei sogni.
Scriveva Sulas: “Sugli indumenti di Yara non sono stati trovati solo sette capelli con cinque Dna maschili ancora sconosciuti (…), ma Cristina Cattaneo repertò anche tre piume provenienti, vista la forma e le dimensioni, da volatili da cortile. Interessanti perché attorno al corpo della ragazza e nel campo di Chignolo non ne sono state trovate altre. Le hanno lasciate i gabbiani o le cornacchie forse presenti nella zona? O sono di volatili domestici come galline, anatre o oche? Come, dove e perché sono finite sotto indumenti di Yara? (…) E se così fosse dove sarebbe stata tenuta? In un pollaio? In una cascina con galline e altri animali da cortile?”
“Nel cantiere di Mapello – continuava il giornalista di Oggi – sul quale, malgrado tutte le smentite, il Pubblico Ministero Letizia Ruggeri qualche sospetto doveva averlo se il 25 febbraio 2011, 24 ore prima del ritrovamento di Yara, aveva affidato l’incarico di indagare ancora all’archeologo forense Dominic Salsarola? Queste piume potrebbero indicare il luogo dove il corpo di Yara, almeno per un certo periodo, è stato tenuto? (…) Su un campo in località Ghiaie di Bonate Sopra dove nel 2010 venivano allevate galline, oche, anatre e persino pavoni.Anche perché la piccola fattoria era gestita dal signor G.B., del quale ci siamo occupati nel numero scorso di Oggi, e da altre due persone, su un terreno di proprietà di una nota famiglia di Brembate legata da una solida amicizia a Fulvio Gambirasio, il papà di Yara, e al titolare della “Z.A.”, l’azienda posta di fronte al cantiere di Mapello, indicata come prigione di Yara.”
Ecco quelle iniziali dei nomi G.B. come Giulio Bonaldi e Z.A. come Zilioli Andrea, non potevano essere solo un caso. Infatti, cercando l’articolo della settimana precedente scritto da Giangavino Sulas, tutto il quadro mi parve molto più chiaro e, soprattutto, mi confermava che i miei sogni avevano un fondamento reale. Forse mia moglie non ha tutti i torti: un buon psicologo potrebbe davvero aiutarmi. Decido di leggere tutto l’articolo pubblicato dal settimanale Oggi, nel numero precedente. Già il titolo mi appariva rivelatore: “La pista dei due imprenditori. Per trovare la ragazza cercare alla Z.A.”.
Ecco quanto apparso sul settimanale Oggi. “Il 6 dicembre 2010. Sono le 19h 14’ 25”. Yara è scomparsa da dieci giorni. Al 113 arriva una chiamata anonima da una cabina pubblica di via Campofiore a Villa d’Almè, grosso paese a pochi chilometri da Brembate. Parla una voce maschile. Poche parole ma una indicazione precisa. La Z.A.” (sono le iniziali del fondatore di questa ditta) è una azienda di Brembate Sopra che si occupa di smaltimento di materiali di scarto dell’edilizia. Il telefonista anonimo è un mitomane? Uno sciacallo? O sa qualcosa di importante? La Polizia in quel momento è fuori dalle indagini, affidate ai Carabinieri perché la denuncia per la scomparsa di Yara era stata presentata alla caserma dell’Arma di Ponte San Pietro.”
“Ma naturalmente – continuava l’articolo di Giangavino Sulas – il questore Enzo Ricciardi passa l’informazione ai Carabinieri. E i militari non perdono tempo. La mattina dopo, 7 dicembre, alle 10.10 stanno già ascoltando il titolare della “Z.A.”. L’azienda attira la loro attenzione anche perché ha sede proprio di fronte all’ingresso del cantiere di Mapello, lo stesso dove pochi giorni prima, il 29 novembre, tre cani molecolari avevano condotto gli inquirenti fiutando le tracce di Yara. Alla “Z.A.” per la verità i Carabinieri erano già stati. Il 3 e il 4 dicembre, per controllare le immagini registrate dall’impianto di videosorveglianza ma avevano scoperto che erano state cancellate 48 ore prima. Sarebbe stato molto importante sapere quali automezzi erano transitati in zona nelle ore in cui Yara spariva.
Anche nel cantiere di Mapello erano iniziati i controlli perché il 4 dicembre, due giorni prima della telefonata anonima, era stato fermato il muratore marocchino Mohamed Fikri che, la notte in cui Yara svaniva nel nulla, era in cantiere con il datore di lavoro Roberto Benozzo e il custode Federico Anni. Il cellulare di Fikri, messo sotto controllo, fece sobbalzare l’interprete marocchina della Procura. In due telefonate colse due frasi shoccanti: “Dio mio non l’ho uccisa io…”, “… L’hanno uccisa davanti al cancello…”.
“In quel momento venimmo a conoscenza di due notizie che ignoravamo. Che Yara fosse stata uccisa e che l’omicidio fosse stato compiuto davanti al cancello del cantiere.”, dirà a caldo un ufficiale dei Carabinieri. Dopo un iter giudiziario durato quattro anni e dopo ben 16 traduzioni, spesso contrastanti, affidate a ben 50 interpreti, il marocchino fu prosciolto. Intanto il titolare della “Z.A.” viene sentito anche perché non solo la sua ditta è di fronte al cantiere ma lui vive e abita ad Ambivere proprio lungo la strada sulla quale Cinzia Fumagalli, l’unica testimone considerata attendibile nell’intera inchiesta, raccontò che la sera del 26 novembre vide sfrecciare un furgone bianco e sentì l’urlo straziante di una ragazza. Certamente è solo casuale, anche se rispondendo alle domande l’uomo qualche incertezza la mostra. Dichiara infatti che il 26 novembre dalle 10 del mattino in poi era stato a Selvino dove aveva partecipato a un rally automobilistico. Si era fermato a dormire nel suo camper ed era tornato a casa la domenica 28”.
“In realtà quel Rally – continua il cronista del settimanale OGGI – non si è corso il venerdì 26 ma il giorno dopo. Forse faceva confusione tanto che si affretta a precisare la sua versione dicendo che a Selvino era andato non al mattino ma la sera del 26 per portare il camper e che verso le 19 era tornato in azienda e poi a casa a cena. E non era più uscito. Un suo dipendente conferma la versione ma i loro cellulari sembrano dire una cosa diversa. Quel giorno infatti si collegano alla cella di Selvino solo attorno alle 15 e poi alle 23, ma alle 19 agganciano la cella di via Marconi a Ponte San Pietro, e alle 19.13 quella di via Natta a Mapello, la stessa che copre l’abitazione di Bossetti e la palestra di Yara.
Quest’uomo ha un amico, G.B., socio di una ditta di infissi a 300 metri dalla palestra di Yara, una ditta che possiede tre furgoni Ducato bianchi, due chiusi e uno con cassone, tutti con le scritte pubblicitarie sulle fiancate. Val la pena di ricordare che la signora Fumagalli aveva parlato di un furgone bianco con scritte laterali che non era riuscita a identificare. Anche G.B., interrogato, dirà ai Carabinieri che la sera del 26 novembre dopo essere andato a trovare il fratello che abita vicino a casa Gambirasio, non era più uscito. Aggiunge che della sparizione di Yara aveva saputo il giorno dopo”.
“Ma il 14 ottobre 2011 – concludeva il suo dettagliato articolo Gian Gavino Sulas – Abozeid Mustafa Mohamed, titolare di una pizzeria a Barzana, interrogato dai Carabinieri dichiarò: “Venerdì 26 novembre 2010, giorno della scomparsa di Yara, ricordo di essere stato al lavoro nella mia pizzeria e la sera stessa della scomparsa sono venuto a conoscenza della notizia grazie a un mio cliente che era venuto a cena. Il suo nome è G.B.”. Quindi G.B. quella sera era uscito e sapeva già della scomparsa di Yara? Ma non ne erano informati solo la famiglia, le insegnanti di ginnastica e, dopo le 20.30, i Carabinieri di Ponte San Pietro? Domande rimaste senza risposta.”
“A un certo punto Z.A., G.B. e altri personaggi di Brembate, dei quali parleremo nelle prossime settimane, infatti, sono usciti dal mirino degli inquirenti. Sicuramente non hanno niente a che fare con l’omicidio ma il loro profilo genetico è stato confrontato con i cinque Dna ricavati da sette capelli maschili trovati sotto la maglietta di Yara e i due sui guanti? Tutti appartenenti a sconosciuti. Dalle carte non risulta. Forse perché il corpo di Yara è stato trovato tre mesi dopo e su queste persone era calato l’oblio.” Fin qui l’articolo di Giangavino Sulas.
A questo punto non mi restava che provare a mettere ordine tra le immagini dei miei sogni con l’aiuto degli articoli di Sulas, conscio che tutto andava verificato, controllato e approfondito. La validità di una pista alternativa non può certo essere solamente fondata su dei sogni o degli articoli di un settimanale, per quanto autorevole. Decisi, comunque, di provarci. Presi il block notes con gli appunti, gli articoli di Sulas e un pò di fogli bianchi e cominciai a scrivere una possibile pista alternativa.
Sono le 18.30/18.40 del 26 novembre 2010. Come ogni sera Giulio Bonaldi passa a casa del fratello Giacomo, in via Rampinelli 40, per andare a prendere il figlio con il Pick-up grigio intestato alla società. Si ferma davanti alla casa del fratello per circa 2 minuti, attorno alle 18.40. Successivamente compie una inversione di marcia e riparte in direzione della palestra da dove era uscita Yara. Il cielo è piovoso e Giulio, incrociando Yara, decide di offrirle un passaggio. Yara Gambirasio non ha motivo di rifiutare quell’ invito; conosce bene quell’uomo. Accetta e sale sulla sua vettura. Tutte le sere, infatti, Giulio passa in via Rampinelli, al civico 40, a prendere suo figlio.
Lui, Giulio Bonaldi, l’ha vista crescere Yara, e ora che è un’adolescente perché non farle una battuta? In fondo si sa come sono le ragazze d’oggi, a 13 anni hanno già il fidanzatino. Yara, però, non è come le altre. Lei è diversa, concentrata com’è sulla scuola, la ginnastica e la sua famiglia. Quella battuta di Giulio è di troppo, fino al punto di sentirsi molestata. Si spaventa e comincia a gridare di farla scendere, è presa dal panico. Giulio teme che ora riportarla a casa potrebbe essere un pericolo. Di sicuro racconterebbe tutto al padre che lui conosce bene. La deve calmare, deve allontanarsi da quella zona, in qualche modo deve nasconderla almeno fino a quando non si è calmata e gli garantisce di non dire nulla in casa.
Purtroppo più si allontana e più la piccola Yara è spaventata e grida. Occorre farla tacere. Con un colpo alla testa la stordisce impedendole così di continuare ad urlare. Ormai anche Giulio è nel panico e non può certo girare con la ragazzina sul Pick-up. Decide così di andare nella sua azienda, che a quell’ora è chiusa, e trasferire Yara su uno dei suoi furgoni bianchi. Con la ragazza svenuta, caricata nel furgone, deve cercare aiuto. Si reca così dal suo migliore amico Giuseppe Zilioli, proprietario della ditta Zilioli Andrea, sita proprio di fronte a quel cantiere dove i cani molecolari avevano fiutato la presenza di Yara.
Con Giuseppe si conoscono bene; tutti i giorni si vedono per passare qualche ora assieme dopo il lavoro. Purtroppo Giuseppe Zilioli non è nella sua azienda. Giulio decide così di cercarlo presso la sua abitazione, che si trova nel comune di Ambivere, esattamente in quella via dove la signora Fumagalli dice di aver visto un furgone bianco sfrecciare ad alta velocità, e dal quale avrebbe sentito le urla di una ragazzina che chiedeva aiuto. Non avendolo neppure rintracciato a casa, Giulio torna sui suoi passi e si reca nelle vicinanze della ditta Zilioli Andrea e più precisamente nel cantiere di Mapello dove, trovando libero accesso, si rifugia in attesa dell’arrivo del suo amico.
In quel cantiere lavora anche un altro amico di Giulio, Pietro Tarrone, magazziniere di una grande azienda la LOPAV, che ha in appalto i lavori di costruzione del centro commerciale. Pietro Tarrone gestisce assieme a Giacomo Bonaldi, fratello di Giulio e altri amici fidati una piccola fattoria con piccoli animali da cortile come galline, conigli oche anatre pavoni ecc ecc. Tarrone si trova al cantiere di Mapello per ritirare degli elicotteri usati proprio in quei giorni per levigare le recenti gettate di cemento dei nuovi pavimenti, e può certamente aiutare Giulio. Finalmente dopo qualche minuto arriva anche l’amico Giuseppe Zilioli che propone a Giulio di nascondere il corpo della piccola Yara.
Troppo pericoloso tenerla nel furgone o portarla altrove; a quell’ora, 19.30 circa il traffico è ancora molto intenso. Meglio occultarla nella sua azienda, magari in un container, tra le macerie dell’edilizia proprio in quel container dove avevo visto in sogno Massimo Giuseppe Bossetti svuotare il suo furgone. Avrebbero potuto recuperarla nelle ore notturne e occultarla da qualche altra parte. Questo particolare del container con il materiale di scarto di lavori edilizi scaricati da Massimo Giuseppe Bossetti, potrebbe anche ben giustificare la presenza del Dna di Yara sul lembo degli slip, che si trovava all’esterno dei leggins. Non è un segreto che lo stesso Bossetti ha più volte dichiarato che soffriva spesso di epistassi e tutti i fazzolettini intrisi di sangue li gettava tra le macerie. Per non parlare del naturale sudore depositato sugli stessi durante la rimozione o l’abbattimento di muri e di calcinacci.
Dopo aver temporaneamente occultato il corpo di Yara ed essersi ripreso dallo stress di quanto successo Giulio, attorno alle 20.30, con il furgone bianco riparte in direzione della casa del fratello in via Rampinelli 40 a prendere il figlio per far ritorno a casa. Ormai si è fatto tardi, la mamma di Giulio Bonaldi, dove si reca quasi ogni sera a cenare con i figli, sarà ormai a letto, vista la sua età e non è più il caso di andare a casa a cucinare, tanto vale fermarsi a prendere delle pizze.
Si dirige verso Barzana per raggiungere la pizzeria che conosce bene. Il proprietario, Abozeid Mustafa Mohamed, nota che il cliente è alquanto agitato, e chiede a Giulio cosa stesse succedendo. Questi lo informa che aveva saputo della sparizione di una ragazzina di Brembate di Sopra. Strano che alle 21.00 di quel maledetto 26 Novembre 2010 Giulio già sapesse una notizia che solo i familiari della ragazza ipotizzavano.
Certo Yara non poteva restare in quel container troppo a lungo. Sabato mattina la ditta Zilioli Andrea è aperta; quindi occorre trovare un altro luogo. Così nelle prime ore del 27 novembre 2010, Yara viene portata alle Ghiaie di Bonate dove Giulio, con il fratello Giacomo e l’amico Tarrone, hanno una modesta fattoria con tanti piccoli animali da cortile. D’inverno nessuno frequenta quel luogo, se non loro. Non è neppure tanto facile accedervi, visto che confina con l’azienda LOPAV, completamente cintata e controllata dalle videocamere. Un luogo ideale, dove anche se si fosse sentito l’odore di un corpo in putrefazione, difficile visto le temperature molto basse a causa della stagione invernale, lo stesso odore sarebbe stato coperto da quello degli altri animali.
Per depistare comunque le eventuali indagini, meglio spogliare la ragazzina e farle dei segni incomprensibili sul corpo così da indurre a pensare che il tutto sia frutto di qualche setta satanica o di qualche pazzo magari pedofilo. Alcuni vestiti tolti alla ragazzina, come il giubbino e la felpa, sono riposti in un sacco e tenuti occultati in attesa che le acque si calmino. Siamo ormai a metà gennaio e le ricerche di Yara non hanno dato frutti.
Si fa largo l’ipotesi che Yara sia stata rapita e portata lontano dalla bergamasca o addirittura che il suo corpo sia stato occultato sotto il cemento del neo centro commerciale di Mapello ancora in costruzione. Improvvisamente per Giulio e i suoi amici si apre una ghiotta opportunità di farla franca, infatti, esce la notizia che un giovane ragazzo dominicano è stato ucciso e lasciato in un terreno incolto nella zona industriale di Chignolo d’Isola, ecco l’opportunità di liberarsi di quel corpo e sviare le indagini addossando la colpa magari all’assassino del giovane appena trovato.
Appena liberato il campo di Chignolo d’Isola dall’attenzione degli investigatori e dai media, anche grazie al veloce arresto del presunto colpevole dell’omicidio del ragazzo, il corpo di Yara è depositato in quel campo dove vi rimarrà per oltre un mese. Il ritrovamento del corpo della piccola Yara avverrà il 26 Febbraio 2010.
Naturalmente sono cosciente che questa ricostruzione è il frutto di sogni, di informazioni giornalistiche e di una buona dose di fantasia. Il tutto necessita di accurate verifiche sui documenti ufficiali. Per esempio consultando le celle telefoniche per avere conferma degli spostamenti delle sopracitate persone a suffragio della mia ipotesi. Occorre, inoltre, controllare le dichiarazioni rese dai fratelli Bonaldi dallo stesso Giuseppe Zilioli e altri ancora. Insomma, è sicuramente una ricostruzione inutile sotto ogni profilo. Decisi, comunque, di parlarne a Chiara. Non sapevo cosa aspettarmi da lei. Ma dopo il nostro ultimo incontro e soprattutto meditando sulle sue parole prima di congedarci, forse era la persona meno adatta. Però mi fido di lei. È un amica, molto cauta e attenta ai particolari.
Il venerdì per noi magistrati è il giorno deputato per tirare le somme del lavoro fatto durante la settimana. Per questo evitiamo, quando possibile, di fissare udienze e appuntamenti. Mi parve il momento più opportuno per passare a salutarla. Certo che in quell’occasione avrei potuto lasciarle lo scritto della mia storia/ricostruzione. Così è stato. Le chiedo per telefono “udienza”, subito concessa. Nel pomeriggio la raggiungo in ufficio. Ancora prima che potessi aprire bocca mi dice: “So perché sei qui. È per il processo di Bossetti. Cos’altro hai saputo?” Decisi di raccontarle tutto: i miei continui sogni notturni che ormai erano diventati incubi, la verifica degli stessi con gli articoli di Giangavino Sulas e soprattutto della mia ricostruzione.
Alla fine del mio racconto non mi parve molto entusiasta. Per la verità ebbi la sensazione che provasse un po’ di pena per me. Ero pronto a sentirmi una dura ramanzina. Invece, si alzò dalla sua poltrona e dirigendosi dalla parte opposta della scrivania si sedette vicino a me. Mi guardò con uno sguardo che non avevo mai visto in lei, e con voce bassa mi disse: “Se ti fa piacere provo a fare una telefonata al mio amico e gli chiedo una verifica della tua ricostruzione con i documenti presenti nel fascicolo del Pubblico Ministero. Ma non aspettarti nulla di eclatante.” Poi mi sorrise facendomi notare che da una ora preventivata, avevamo parlato per oltre 3 ore.
Uscendo dal suo ufficio mi sentii più sollevato, anche se ero certo che da quel momento avrei vissuto i giorni successivi in spasmodica attesa di un suo cenno riguardo alla mia quasi onirica ricostruzione. Buco l’impegno del sabato successivo con i colleghi, privilegiando un altro incontro più smart. Quando mi ripresento il sabato dopo, li trovo caricati e sempre più incuriositi della vicenda, aspettando da me nuove notizie in merito. “Allora, civilista, cosa ci racconti di nuovo?”
La domanda me la pone Enrico, l’unico collega civilista della compagnia, forse più posato di me ma certamente meno serio. Esordisco con la frase: “Purtroppo il mio uccellino è volato via.” Le risate ilari e divertite di tutti i presenti al nostro tavolo, attirarono perfino l’attenzione e la curiosità degli altri avventori della pizzeria, combriccole di giovani compresi. Si avvicina al tavolo anche il titolare del locale per prendere “la Comanda”, un termine che odio in maniera feroce.
“Vedo che siete tutti di buon umore. Mi fa piacere. Prendete il solito?” “Per lui una doppia birra, è appena stato abbandonato dal suo uccellino” interviene Calliope, segnalandomi a dito al titolare del locale e ai colleghi. “Ridete, pure”, dico a loro fingendomi quasi mortificato. Osservai Chiara e mi resi conto che era particolarmente taciturna: lei non aveva neppure partecipato a quella risata comune. La serata continuò come al solito parlando di lavoro, naturalmente del loro lavoro, dei loro casi e nessuno quella sera parlò più del processo a Massimo Bossetti. Questo, in un certo senso, mi rendeva più tranquillo. Finalmente ero tornato a essere il civilista di prima, potevo estraniarmi senza destare sospetti.
Chi però destava sospetto era proprio Chiara, che per tutta la sera non aprì bocca. Finita la cena, dopo i rituali saluti, mi recai alla mia macchina e come una scena già vissuta, sentii alle mie spalle che qualcuno mi stava seguendo. Era Chiara. Nelle mani teneva una cartellina. Mi fermai, e quando si avvicinò le chiesi subito: “Chiara come stai?” Lei non mi rispose. Mi allungò la cartellina e abbassò lo sguardo. Le chiesi cosa contenesse. “Quello che mi hai chiesto, rispose senza indugio. Qui ci sono le prove che quello che hai scritto e hai detto è tutto dimostrabile. È tutto vero e c’è anche molto di più… Fanne buon uso.” Girò le spalle e con passo deciso raggiunse la sua macchina e se ne andò.
Rimasi impietrito, con gambe e braccia che mi tremavano. Non ricordo per quanto tempo rimasi lì fermo con in mano quella cartellina. Pensai solo che da quel momento avrei dovuto fare qualche cosa. Sì, ma cosa? Sono passati ormai 2 mesi da quella serata, io ho evitato di andare alle cene del sabato sera con i miei colleghi. In realtà non ne ho saltate molte, complice il mese di agosto. Ormai siamo a metà settembre, tra meno di un mese la Suprema Corte di Cassazione emetterà la sua sentenza e forse avrà messo la parola fine sul processo a Massimo Giuseppe Bossetti.
Decisi così di riprendere a frequentare le cene del sabato sera, in quella pizzeria della bassa padana. Ogni volta che restavamo in nove il proprietario della pizzeria ci domandava: “Quale dei 10 comandamenti manca stasera?” Per fortuna quella sera c’eravamo tutti. Appena arrivato mi resi conto che l’atteggiamento dei miei colleghi era diverso nei miei confronti, mi trattavano come uno di loro. Continuavano a stimolarmi a esprimere il mio parere su reati penali, pronunce di altri magistrati. Per la prima volta dimenticai di essere un giudice civilista, fino a quando Chiara mi disse che sapevano tutto, perché li aveva messi al corrente di tutte le mie ricerche e dei miei sogni.
Fu allora che arrivò la domanda che mai avrei voluto sentirmi fare.
Fu Zelinda a prendersi l’onere di formularmela.
“ Ma poi cosa ne hai fatto di quelle informazioni?”
Le ho consegnate a un giudice, le risposi.
“Chi hai scelto come avvocato difensore?” – ribatté Chiara.
Cari colleghi, – dissi – , ricordate la frase latina Nomen Omen?
“Ti faccio notare che quasi tutti noi magistrati abbiamo fatto il Liceo Classico. Ergo…”, interviene Ivan La Manna.
Bene. Se è vero, dunque, che nel nome c’è anche il destino, voi chi avreste scelto come avvocato? – La risata è stata fragorosa e in sintonia con tutti i colleghi presenti. –
“Di certo – interviene Calliope – non avrei incaricato l’Avvocato Massimo Della Pena!”
Non ti sarebbe stato possibile nominarlo, – intervengo di brutto -. È un Avvocato Civilista e lavora presso l’Università romana “La Sapienza”!
“Io avrei scelto l’Avvocato Salvatore di Gesù!”, interviene Allegra.
Errore, – rispondo – . È un avvocato di Bologna, civilista, e lavora presso uno studio notarile.
“Allora puoi scegliere, l’avvocato Maria Rina Grazieplena?” afferma Zelinda.
Impossibile! È, infatti, un Praticante presso uno studio di Martinsicuro, in provincia di Teramo. Non può neppure patrocinare in Cassazione!
“Allora perché non scegliere l’Avvocato Ernesto Della Ragione!”, dice convinto il collega Claudio Donati.
Acqua. È un Avvocato esperto in Diritto di famiglia e Diritto minorile.
“Io avrei scelto, interviene Allegra, l’Avvocato Salvatore Trombatore, con studio a Rosolini in provincia di Siracusa. Avrei così unito l’utile al dilettevole…”
E brava la nostra Allegra. Ma lascia che faccia un po’ di pratica. Attualmente lavora come Praticante nello studio legale del padre.
A questo punto, cari colleghi, vi dico io chi ho scelto: l’Avvocato Giuseppe Di Dio, del foro di Bergamo. Così almeno avrò la certezza di essere giudicato da un Tribunale vero: quello del Giudizio Divino.