Cardito, Ecco le intercettazioni choc delle maestre che ridono dopo la morte di Giuseppe
“Io faccio la faccia di cazzo”. Come a dire, faccio finta di cadere dalle nuvole e rispondo a muso duro. Nella sala d’aspetto del commissariato di Afragola, convocate dalla polizia, le maestre della scuola frequentata dai figli di Valentina Casa parlottano tra loro in attesa di essere sentite dagli investigatori.
Non sanno di essere intercettate. Ridono, si confrontano su quello che andranno a dire di lì a poco. Si era appena saputo della morte del piccolo Giuseppe Dorice e delle condizioni gravissime della sorellina, massacrati dal compagno della madre, ed erano partiti quelli che il giudice definisce “frenetici ed ignobili tentativi di reciproca copertura”. Tutto finito nelle intercettazioni, che cristallizzano, più che un senso di colpa, la paura di rimanere coinvolti in una indagine. Il timore che qualcuno potesse chiedersi perché la scuola non aveva fatto nulla, che qualcuno potesse puntare il dito. Perché i bambini, in classe, ci erano arrivati anche con la faccia spaccata.
Segni inequivocabili delle violenze che si consumavano in casa e che, nel mondo degli adulti, passavano inosservate. Le insegnanti che avevano visto la bambina, rileva il giudice, un moto di coscienza l’avevano avuto, seppur quando era già troppo tardi. Diversamente, quelle che avevano a che fare col fratellino: “mesi di silenzio e, dopo la sua morte, solo l’insistita ricerca di impunità”.
La piccola a scuola con l’orecchio strappato
Nell’ordinanza c’è un episodio risalente al gennaio 2019. La bambina era arrivata a scuola con una medicazione sull’orecchio, fatta in casa. Gliel’avevano quasi strappato. E, in classe, si era spostata i capelli. Come per farsi vedere, per chiedere aiuto. Quando le avevano chiesto cosa fosse successo, aveva risposto che era la punizione del patrigno perché era stata “monella”.
La vicenda era stata segnalata alla dirigente con una nota interna del 18 gennaio 2019. Qualche mese prima, a novembre, la bimba era arrivata con le labbra gonfie. Era caduta dalla bicicletta, aveva detto, salvo poi correggersi dicendo di essere caduta dal letto. Ma c’è anche dell’altro, che avrebbe potuto far intuire alle insegnanti che qualcosa, tra quelle quattro mura, non andasse nel verso giusto.
La bambina non veniva curata né lavata, i vestiti puzzavano di muffa, spesso aveva lividi: tutte osservazioni non risalenti all’ultimo periodo ma anche a diversi mesi prima. Come un altro episodio del novembre 2018, quando la bimba arrivò con una ecchimosi sotto l’occhio e, dopo diverse domande, affermò che gliel’aveva fatto Tony e scoppiò a piangere. Anche la maestra scoppiò a piangere e ne parlò con le altre. Ma non ci fu nessuna denuncia. La linea negazionista per evitare le conseguenze.
Di diverso tenore il comportamento delle maestre che avevano visto le condizioni di Giuseppe. E torniamo alla sala d’aspetto del commissariato di Afragola. Il giudice, sulla base delle intercettazioni, rileva che le insegnanti si sono prima comportate con indifferenza e poi, ridendo, hanno deciso di rispondere con strafottenza, senza cedimenti, fingendo di non sapere nulla e ribattendo punto per punto. È il pomeriggio del 27 gennaio, si è appena saputo della morte di un bambino di Cardito ma ancora non si sa chi è. In quelle ore le insegnanti si telefonano a vicenda.
Hanno capito, perlomeno hanno intuito. Ci sono arrivate per deduzione: conoscono l’età, la zona, e sanno che proprio lì c’è un bambino di 7 anni che loro conoscono bene e che arriva in classe spesso con il volto gonfio perché il convivente della madre lo “ammazzava di palate”. Si sono limitate a segnarlo alla preside, dicono parlando tra loro, ma non si sono mai rivolte alle forze dell’ordine. Si rammaricano, parlano di una morte annunciata, delle volte che hanno visto il bambino malconcio. E concordano una linea di difesa comune: i bambini avevano detto di essere caduti e loro ci avevano creduto.