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Romina, lei ha tatuato sul suo corpo la scritta home. Che significato ha?
L’ho scritto perché vorrei essere il punto di partenza e quello di arrivo di me stessa. Non un posto fisico con i mattoni e le finestre, perché quello può essere imprevedibilmente invaso o distrutto da altri. Ed è una sensazione che non mi piace.
C’è un posto dove si sente a casa?
Sono io la mia casa, sono il posto dove voglio stare bene. Se stai bene con te stessa, stai bene anche in una camera d’albergo.
Le stanze degli hotel vengono considerate da molti un luogo impersonale. A lei piacciono?
Io ci sto bene. Forse perché mi ricordano anni bellissimi, quelli dell’infanzia, quando i miei genitori facevano tournée mondiali e ci portavano con loro in giro per il mondo.
Il suo primo ricordo in assoluto?
Le corse sui prati con mia sorella Cristel, nella casa di Cellino. Respiravamo libertà e spensieratezza. Ma molte delle immagini che riemergono dalla mia memoria, non so bene se siano ricordi veri o cose che ho visto in uno dei tanti video amatoriali che i miei genitori realizzavano con le prime videocamere portatili, negli anni ’80.
Quello che le è rimasto più impresso?
Il film di quando sono nata: ho il vhs del parto, con mio padre che riprende tutto, anche il taglio del cordone ombelicale. Fa un po’ ridere perché non sapeva accendere l’audio e così i primi venti minuti sono muti. Poi, improvvisamente, si sentono le mie urla.
Che impressione le fa rivedere oggi quei video?
È straniante. Spostando l’obiettivo, cambia anche la prospettiva sulle cose. È quasi come avere puntato addosso l’occhio del film The Truman Show.
Citava prima Cristel: che rapporto ha con sua sorella?
Siamo compagne di viaggio e di vita. È un miracolo sapere che c’è una persona che ha le stessa mia prospettiva sulle cose: solo lei può capirmi nel profondo. Negli anni poi ci siamo ritrovate sempre più vicine e unite.
Che sensazione le provoca l’idea di essere stata una delle protagoniste, assieme alla sua famiglia, di una sorta di romanzo popolare che dura da più di quarant’anni?
Quasi sempre fa piacere, altre provoca disagio. Come quando tutti hanno sempre dato per scontato che volessi stare sulle copertine o partecipare a servizi fotografici, invece molte volte avrei voluto essere altrove.
Ad esempio, quando non avrebbe voluto esserci
Decine di volte. I grandi dolori o le grandi felicità uno dovrebbe poterli metabolizzare con i propri tempi. Invece, stare sotto i riflettori ti costringe a sentirti giudicata anche quando hai solo voglia di essere capita.
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L’altro rovescio della medaglia, nel suo caso, è un tesoretto di popolarità che lei ha acquisito sin dalla nascita.
Ma a me piace guadagnarmi le cose e penso che la popolarità di riflesso sia l’emblema dell’effimero. La popolarità ha un senso quando è frutto di lavoro duro e di competenze.
Se le danno della privilegiata si offende?
No.
Si considera una privilegiata?
In parte. Essere privilegiata non mi ha esentato da una vita a tratti complicata, per quanto molto piena. Soprattutto da adolescente, ho vissuto momenti in cui ho provato sensazioni difficili da gestire, o magari mi sono sentita in balia degli eventi più che protetta. Questo da una parte mi ha formato il carattere, dall’altra ha prodotto molte carenze. Poi però si cresce, si cerca di strutturarsi meglio e, se necessario, di corazzarsi. Ed io ad un certo punto ho capito che per farlo dovevo prendere in mano la mia vita.
In che modo?
Me ne sono andata in America a studiare. Volevo scendere dalle montagne russe, smettere di far parte di un film corale per il quale non avevo fatto nemmeno il provino. Ho capito che l’attenzione morbosa non è un forma d’amore, soprattutto quando il pubblico di terze persone veniva e mi giudicava, mentre io crescevo e mi sentivo sola.
In America cos’ha fatto?
Ho studiato quattro anni a Los Angeles recitazione, improvvisazione e scrittura. Sono andata per studiare e preparami e ho capito che mi piace di più stare dall’altra parte delle telecamere: ho fatto anche l’attrice e mi piace stare in scena ma ho compreso che cercavo dei ruoli soprattutto per nascondermi. Oggi, anche grazie alla psicoanalisi, ho trovato la mia dimensione: più che celarmi dentro un personaggio, voglio essere libera di esprimere me stessa.
È sempre stata così inquieta?
A tratti. In certi momenti vivevo un’inquietudine feroce, perché il non accettarsi e il volersi diversa ti costringe a gestire una tempesta interiore. Oggi sono più serena, pur essendo ancora alla ricerca del mio posto nel modo.
Sentimentalmente invece è più risolta: come procede la storia con il fidanzato medico?
(ride) In realtà quella è una storia vecchia, che però qualche sito ha tirato fuori da poco. Mia sorella mi ha detto: «Scusa, sei fidanzata e non mi dici nulla?». In realtà sono single ma potrei avere un corteggiatore.
E chi è?
Un uomo misterioso. Sul portone di casa mia, a Trastevere, ho trovato una rosa rossa e un biglietto: «Tutta la mia vita sei tu». Devo ancora capire chi è stato.
Tornando all’America: è vero che ha lavorato come cameriera in uno strip club?
Sì.
Confessi: fu un capriccio da figlia di papà?
No, al massimo il capriccio di voler vivere una straordinaria normalità. Anche perché non mi sono mai sentita una figlia di papà. Semplicemente avevo bisogno di provare esperienze nuove, di tuffarmi in un mondo completamente sconosciuto. Ho osservato molto, mi sono divertita, ho fatto incontri assurdi.
Quello indimenticabile?
Ogni tanto arrivava Quentin Tarantino: gli piaceva una ragazza che somigliava molto ad Uma Thurman.
Il momento cult?
Noi cameriere eravamo costrette a dare tutte le mance al manager del locale, un tipo stronzissimo: una sera un cliente iraniano s’innamora di me e mi rifila mance da 100 dollari, così correvo in bagno e m’infilavo di nascosto le banconote negli stivali. A fine serata il capo mi disse: «Com’è che non hai tirato su manco dieci dollari?». Io feci la faccia da svampita e me ne andai soddisfatta, con le banconote nello stivale.
Nell’ultimo anno è stata spesso ospite di Serena Bortone a Oggi è un altro giorno. Ha avuto altre proposte dalla tv?
Diverse, soprattutto per i reality: me ne hanno proposti tanti ma non sono tipa da reality. Non per il genere in sé ma per i compagni di viaggio.
È ancora scottata dalla partecipazione all’Isola dei Famosi, che fece nel 2005?
(ride) Abbastanza. Amavo molto Cast Way e io partii convinta di fare la Tom Hanks al femminile. Invece mi sono ritrovata in mezzo a chi cercava la fama attraverso la fame. Io non volevo diventare famosa, ma solo fare un’esperienza nuova. Però la feci in uno dei periodi peggiori della mia vita perché non mi piacevo, non mi accettavo. La strada per arrivare alla consapevolezza e all’auto accettazione è stata complicata e lunga e solo da qualche anno sto davvero bene con me stessa.
Lei non ha paura di mettersi a nudo: in un’intervista rivelò che proprio dopo L’Isola visse un periodo complicato, in cui fece uso di stupefacenti e iniziò a bere.
Tante volte mi sono chiesta se ho fatto bene o meno a rivelare quelle cose. Non perché me ne vergogni ma perché poi quelle parole sono state strumentalizzate. Oggi penso che se con quella «confessione» posso aver aiutato anche una sola persona a trovare una via d’uscita per migliorare o uscire dalle dipendenze, allora ho fatto bene a farla.
Torniamo alla sua famiglia, in particolare alle sue nonne. Yolanda è stata una sarta e una contadina, Linda Christian una diva del cinema americano degli anni ’50. In cosa somiglia a loro?
Penso di essere un mix di entrambe. Da nonna Yolanda ho imparato il significato di rispetto, onore e lealtà, tutti valori che mi ha trasmesso lei. Da nonna Linda invece la leggerezza, il disincanto, la capacità di trovare un modo per sorridere anche nei momenti più tragici.
Sua nonna Linda era capace di tutto, persino di versare delle gocce di Lsd nel the di re Hussein di Giordania, a metà degli anni ’60, e di rischiare l’arresto.
Diciamo che era parecchio eccentrica. Ma nel periodo in cui l’ho conosciuta meglio e frequentata di più si era arresa alla vita, aveva smesso con le follie. Però manteneva intatto lo stile e il fascino: me la ricordo in turbante e caftano che fumava, poi si voltava verso mamma chiedendo cosa ci fosse da mangiare per cena. Era l’ultima delle dive.
Di suo nonno Tyron Power, invece, si rimesta ciclicamente sulla sua presunta bisessualità. Che impressione le fa questa cosa?
L’attenzione morbosa per la sessualità altrui la trovo comica e m’infastidisce, come se il fatto di andare a letto con un uomo o con una donna definisse chi sei e possa essere fonte di critica. Nel caso di mio nonno, il desiderio di scovare verità nel mistero – e come molti misteri, non vanno risolti -, fa parte di una certa narrazione hollywoodiana. Quando mi chiedo se davvero sia una cosa che interessi al pubblico, la risposta è sempre no.
Nelle ultime settimane si è discusso e polemizzato molto del DDl Zan: lei è favorevole
Sì. È una legge giusta. E penso anche che in Italia serva un vero cambiamento culturale.
Su Instagram si firma Romina Carrisi Power. Perché?
Perché ho deciso di mantenere il doppio cognome. Un po’ perché è importante continuare la stirpe Power, che altrimenti svanirebbe. E poi perché mi sento molto più Power che Carrisi.
È vero che sta lavorando alla realizzazione di un film
Qualche anno fa ho realizzato un corto da regista e ho capito che mi sarebbe piaciuto lavorare su un lungometraggio. Con il regista Paolo Franchi siamo alla seconda stesura: ho già in mente un titolo e probabilmente sarà una co-produzione italo americana. Io sarà la regista.
Sarà un film autobiografico?
Degli spunti personali ci sono, ovviamente. È un progetto ambizioso e galvanizzante, uno strumento in più per evolvere. Non mi piace stare ferma, non mi basto mai come sono: guardo avanti e cerco di migliorare ogni giorno di più.
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