“Camilla Non era preoccupata”, raccontano gli amici, ed è quel che hanno riferito anche i genitori. E allora si può tornare al 25 maggio, quando Camilla Canepa, 18 anni, si mette in coda con altri ragazzi all’ingresso dei vecchi uffici comunali di Sestri Levante, facciata ocra e decorazioni a mattoncini, poche centinaia di metri da casa sua. Ha in mano un foglio: la «scheda anamnestica», che sarà un tassello decisivo nelle indagini sulla sua morte. La ragazza consegna il questionario in cui bisogna dichiarare il proprio stato di salute, e che viene valutato dal medico prima del vaccino contro il Covid-19, in questo caso AstraZeneca.
La malattia
La ragazza ha una malattia autoimmune che implica un basso livello di piastrine nel sangue, con certezza un fattore di rischio da tener presente prima della vaccinazione. La «piastrinopenia» (nome della patologia) nella «scheda anamnestica» di Camilla, recuperata ieri dai carabinieri del Nas, non è però indicata. È stata omessa? O la ragazza non ne era a conoscenza? L’elemento forse più critico, in questa storia, va però oltre queste domande: l’altro evento che potrebbe aver avuto un ruolo ancor più grave nella catena di interazioni che hanno portato al decesso, accade quattro giorni dopo.
Camilla, ragazza atletica, pallavolista, solare, impegnata nel preparare l’esame di maturità, da qualche tempo ha anche un altro piccolo problema medico, una ciste. Si potrebbe curare tra qualche mese, ma invece il 29 maggio la ragazza comincia la terapia con due farmaci: «Progynova» (ormoni) e «Dufaston» (estrogeni). Entrambe le medicine, spiega una fonte sanitaria molto vicina alla vicenda, comportano un «rischio trombotico», la possibilità che entri in circolazione un trombo: che sarà poi la causa del decesso di Camilla, due giorni fa, 10 giugno, 16 giorni dopo l’«Open day» per il vaccino.
L’inchiesta
L’inchiesta della Procura di Genova, coordinata dal procuratore Francesco Pinto cercherà di comprendere quale sia stato il nesso di causa in questa sequenza di interazioni: malattia del sangue pregressa, vaccino, successiva assunzione di farmaci «a rischio» (un quadro nel quale andrà definito anche il ruolo dei singoli medici, compreso quello del professionista che ha prescritto le medicine alla ragazza a ridosso della vaccinazione). Un paio di giorni dopo aver preso quei farmaci, Camilla inizia ad avere malesseri.
Un forte mal di testa. La luce forte le dà fastidio agli occhi. Il 3 giugno va in pronto soccorso, a Lavagna. Le fanno le analisi del sangue e una Tac. A quel punto i medici, stando a quanto risulta dai primi accertamenti, hanno un quadro definito negli elementi di base: Camilla ha fatto il vaccino, ha quella malattia, ha preso quelle medicine. La tengono per un’intera notte in osservazione. La dimettono il 4 giugno, dopo «remissione dei sintomi». Il giorno dopo peggiora di nuovo e alle 23.58 del 5 giugno entra in pronto soccorso, portata da un’ambulanza, al policlinico «San Martino» di Genova.
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A quel punto ha un coagulo del sangue che le ostruisce una vena. Rientrano i primari. Primo intervento d’urgenza, complicatissimo, «riuscito». L’ostruzione viene rimossa. Ma poi i neurochirurghi devono provare a gestire l’emorragia cerebrale. Altre ore in sala operatoria. La terapia intensiva. Giorni di attesa. «Abbiamo fatto l’impossibile». I genitori di Camilla, Roberto e Barbara, con l’altra figlia Beatrice, vengono «ospitati» in ospedale, assistiti da psicologi richiesti dal direttore Salvatore Giuffrida quando il quadro clinico diventa più nero.
Ore drammatiche: 8 giugno, dal Savonese arriva un’altra donna, 34 anni, sintomi analoghi a quelli di Camilla, da poco vaccinata con AstraZeneca. L’«angiotac» è negativa, la ragazza parla e si muove, all’apparenza tranquilla, ma il «San Martino» è un ospedale di ricerca sulle neuro scienze e i medici notano qualcosa che non li convince negli esami del sangue. Ricoverano la donna in terapia intensiva, 4 ore e mezza dopo anche lei ha un trombo.
Viene operata d’urgenza e oggi respira in autonomia. È salva (con tutte le cautele del caso). Sono due storie molto vicine, che si incrociano: i tempi di intervento e l’eccellenza di un ospedale fanno la differenza. La donna arrivata dopo è in vita; Camilla non ce l’ha fatta. I suoi organi hanno salvato altre persone. «Abbiamo acconsentito alla donazione perché è quel che lei avrebbe voluto», hanno detto i genitori. Seguici su Google News.