Covid-19 e il grattacapo della pausa pranzo in contesti lavorativi: come è cambiato questo momento di socialità con la chiusura di bar e ristoranti
Se c’è un momento durante la giornata lavorativa che ogni dipendente, collaboratore o anche dirigente aspetta, è la pausa pranzo, un’occasione non solo di stacco dagli impegni e dal sovraffollamento di scadenze, ma soprattutto di interazione sociale e crescita umana. Ma con il protocollo sanitario messo in atto per combattere l’epidemia di coronavirus sul posto di lavoro, come sarà ora questa pausa amichevole tra colleghi?
Per quanto riguarda le istituzioni ufficiali, il “Protocollo per garantire la salute e la sicurezza dei dipendenti di fronte all’epidemia da Covid-19”, prevede le seguenti disposizioni per la ristorazione collettiva aziendale: “Senso unico, segnaletica orizzontale, rispetto della distanza, disposizione degli orari”. Questo è validato sia per i posti di lavoro che dispongono di mensa aziendale, sia per quelli in cui la pausa pranzo è ad appannaggio dell’impiegato, ma che dispone comunque aree comuni dove essere consumato.
Dallo scorso 4 maggio, data che segna l’ingresso ufficiale nella cosiddetta Fase 2, ovvero l’apertura parziale dal lockdown nazionale, con priorità alle attività lavorative e industriali del paese, fino alla scorsa settimana con l’avvio della Fase 4 e l’Italia divisa in tre fasce di colore a seconda del livello di rischio di contagio da Covid-19, il settore della ristorazione ha subito un inevitabile battuta d’arresto. Anche e soprattutto a causa dello smart working, così come dei pranzi di lavoro tra colleghi e con i clienti che sono stati sostituiti con riunioni in sede.
Coldiretti proprio in questa settimana, mentre ci stiamo forzatamente riadeguando ad una nuova limitazione della nostra socialità per contenere il rischio di contagio in un contesto molto ampio di risalita della curva dei dati, ha effettuato un sondaggio sul cambiamento dei comportamenti negli uffici, con focus proprio sulla pausa pranzo. I risultati non sorprendono, infatti più della metà dei dipendenti si prepara il pranzo a casa, secondo tutti i crismi igienici, e lo porta con sé all’interno di lunchbox e kit per il pranzo al lavoro per consumarlo in sede e a distanza di sicurezza dai colleghi; il 27% preferisce mangiare a casa; solo il 2% si fa consegnare il cibo direttamente in ufficio (nelle regioni gialle) e un ulteriore 5% va a prenderlo d’asporto. Appena il 4% delle persone approfitta della mensa aziendale e solo il 9% si reca nei bar e nei ristoranti nelle regioni in cui possono ancora stare aperti.
Questo è un tema molto caldo poiché – nonostante tutte le regole seguite pedissequamente dalle aziende per il distanziamento e la sanificazione degli spazi comuni – non sono casi isolati quelli dei dipendenti che, dopo aver pranzo con qualche collega positivo asintomatico, siano finiti in quarantena. Ciò corrisponde ad un problema sanitario per il collaboratore e logistico per la società che si trova decimata dal suo personale.
Anche le dinamiche lavorative risultano compromesse da questa nuova situazione, infatti in realtà che prevedono come fine ultimo la vendita di un prodotto o di un servizio, i pranzi di lavoro con i potenziali clienti rappresentano momenti cruciali delle trattative commerciali e attualmente sono semplicemente vietati, minando così anche eventuali successi contrattuali.
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