Diciotto anni dopo l’11 settembre, uno scrittore ha raccolto 5 mila testimonianze e ne ha scelte 480 per un nuovo libro (in uscita quest’anno) per mettere su carta la memoria orale del giorno più lungo del nostro secolo, l’11 settembre 2001 a Manhattan. Centodue minuti è durato il giorno più lungo del nostro secolo. Sono le 8 e 46 dell’11 settembre 2001 a Manhattan quando il primo aereo dirottato dai terroristi di al Qaeda si abbatte contro la torre Nord del World Trade Center; alle 9 e 03 il secondo aereo entra nella torre Sud; alle 9 e 37 un terzo aereo colpisce il Pentagono.
La torre Sud collassa su se stessa alle 9 e 59; alle 10 e 03 il volo United 93 si schianta a Shanksville, Pennsylvania, mentre i passeggeri cercano di riprenderne il controllo; alle 10 e 28 crolla in una nuvola che avvolge tutta Manhattan anche la torre Nord. Duemilaseicentosei persone muoiono dentro quello che verrà ribattezzato Ground Zero; centoventicinque al Pentagono; duecentosei sugli aerei American Airlines Flight 77, United Airlines Flight 175, American Airlines Flight 11, le cui sigle verranno per sempre ritirate dai cieli; quaranta a Shanksville. Seimila persone restano ferite. Tremila bambini perdono un genitore; cento, nati nei mesi successivi, non conosceranno mai il loro papà.
11 settembre, Le immagini nella memoria e le ultime frasi
Di quella giornata portiamo dentro decine di immagini: gli aerei che spariscono nelle torri, i newyorchesi ricoperti di una spessa coltre di polvere bianca, i pompieri, le macerie, le bandiere. Diciotto anni dopo, vogliamo dare spazio invece alle voci, alle parole senza filtro di chi era lì, minuto per minuto: i soccorritori, i controllori di volo, i militari, gli impiegati delle torri, i consiglieri del presidente George W. Bush sull’Air Force One, gli uomini e le donne le cui speranze si sono infrante davanti alle ultime frasi della persona amata giunte da un aereo o dai grattacieli in fiamme. I testi che seguono, sono tratti dal libro «The Only Plane in The Sky» dello scrittore Garrett M. Graff (in uscita negli Usa il 10 settembre). La traduzione è dello studio Brindani. A New York, Marilisa Palumbo ha incontrato Graff: potete leggere l’intervista completa su 7 in edicola.
Quel cielo così blu su Manhattan
«In tutto il mondo, l’11 settembre iniziò come qualsiasi altro giorno. Il Congresso si stava rianimando dopo la pausa estiva. (…). A Washington, D.C., il neodirettore dell’FBI Robert Mueller aveva assunto l’incarico solo una settimana prima, il 4 settembre, e si apprestava a tenere la sua prima riunione, prevista per le 8, dedicata alle indagini in corso su un gruppo terroristico noto con il nome di al-Qaeda e il bombardamento della USS Cole nell’autunno del 2000. (…) A New York era giorno di primarie, con i cittadini chiamati a decidere quali candidati si sarebbero fronteggiati per raccogliere il testimone dell’uomo che aveva governato la città per otto anni, Rudy Giuliani. Milioni di persone, lavoratori, studenti e pendolari, si erano svegliate e iniziavano a prepararsi per affrontare la giornata, affollando treni, traghetti, metropolitane e autobus per dirigersi verso Lower Manhattan».
Bruno Dellinger, presidente della Quint Amasis North America, Torre Nord, 47° piano: «Il cielo era così limpido. L’aria così frizzante. Era tutto perfetto».
Capitano Jay Jonas, unità di soccorso Ladder 6, Dipartimento dei Vigili del Fuoco (FDNY): «Era come se l’aria fosse stata tirata a lucido».
Luogotenente Jim Daly, Dipartimento di Polizia della Contea di Arlington (Virginia): «Un blu meraviglioso».
Joyce Dunn, insegnante, Distretto scolastico di Shanksville-Stonycreek (Pennsylvania): «Un blu puro».
Brian Gunderson, capo di gabinetto di Richard Armey, leader di maggioranza alla Camera (R-Texas): «Un blu profondo»
11 settembre, IL PRIMO AEREO
«Alle 8:46 del mattino, il volo American Airlines 11 romba in direzione sud nel cielo sopra Manhattan, attraversando l’isola in tutta la sua lunghezza e sorprendendo chi camminava per la strada, prima di schiantarsi contro la Torre Nord, conosciuta come World Trade Center 1, a circa 465 miglia orarie»
Anthony R. Whitaker, comandante in servizio al World Trade Center, Dipartimenti di Polizia Portuale (PAPD), Torre Nord, atrio a piano terra: «Con la coda dell’occhio ho visto due persone alla mia sinistra. Stavano andando a fuoco. Correvano verso di me e poi mi sono passati a fianco. Non emettevano alcun suono. Tutti i vestiti erano bruciati, e loro erano divorati dalle fiamme».
Harry Waizer, consulente fiscale della Cantor Fitzgerald, Torre Nord: «L’ascensore cominciò a cadere, incendiandosi. Sono stato colpito al volto da una palla di fuoco che era entrata dallo spazio tra le porte e la cabina dell’ascensore. Ho visto questa palla arancione arrivarmi in faccia e poi ho avuto la sensazione – non posso chiamarlo bruciore – che mi toccasse e poi è sparita».
Michael Lomonaco, executive chef presso Windows on the World nel complesso commerciale delle Torri: «Pensai, Dio mio, stiamo tutti lavorando. Cosa sta succedendo al 106? Poi mi dissi di stare calmo, che sarebbero scesi dalle scale antincendio. Avevo piena fiducia che tutti sarebbero riusciti a scendere».
David Kravette, broker di borsa della Cantor Fitzgerald, atrio a piano terra, Torre Nord: «Il fatto che io sia vivo è un puro caso del destino. Quel giorno tutti i miei colleghi su in ufficio hanno perso la vita. Erano intrappolati, non c’era modo di uscire».
11 settembre, IL SECONDO AEREO
«Alle 9:03, il volo United Airlines 175 si schianta contro la Torre Sud, WTC 2, a circa 590 miglia orarie».
Capitano Jay Jonas, unità di soccorso Ladder 6, FDNY, in attesa di ordini nel posto di comando dell’atrio al piano terra della Torre Nord: «Ero lì in piedi. Come si può immaginare c’era un gran chiasso, l’acustica nell’atrio del World Trade Center non era delle migliori, c’era molta eco. Poi, tutto d’un tratto, calò il silenzio. Uno dei vigili del fuoco della squadra speciale Rescue 1 guardò verso l’alto e sentenziò: “Potremmo non arrivare a domani”. Lo guardammo e poi, scambiandoci un’occhiata, ammettemmo che aveva ragione. Ci stringemmo la mano augurandoci buona fortuna e ripetendoci a vicenda “Spero di rivederti, dopo”. Per me è molto commovente perché eravamo tutti coscienti che probabilmente quello sarebbe stato il nostro ultimo giorno ma affrontammo comunque il nostro dovere».
Juana Lomi, paramedico del New York Beekman Downtown Hospital: «In quel momento le cose si volsero al peggio. Dissi ai miei ragazzi: “Ascoltatemi bene, le persone per cui non potete fare un triage immediato, tutti quelli che hanno problemi respiratori, dolore al petto, gambe fratturate, qualsiasi problema alle gambe che non permetta di correre, vanno caricati in ambulanza. Tutti gli altri dovranno correre, dovranno usare le gambe o quel che vogliono».
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Andy Card, capo di gabinetto della Casa Bianca: «Stavo recapitando un messaggio che nessun Presidente vorrebbe mai ricevere, lo sapevo. Avevo deciso di riportare due dati concreti e un commento. Non volevo intavolare una conversazione dato che il Presidente era davanti alla classe. L’insegnante chiese agli studenti di tirare fuori i libri, così colsi l’attimo e gli dissi all’orecchio: “Un secondo aereo ha colpito un’altra torre. L’America è sotto attacco.” Ho fatto qualche passo indietro in modo che non potesse farmi domande».
Gordon Johndroe, vice addetto stampa, Casa Bianca: «Io ero presente in aula e mi rendo conto che sarebbe stato strano se all’improvviso fosse uscito di corsa, cosa che prima del documentario di Michael Moore, Fahrenheit 9/11, non aveva mai suscitato clamore. Non è affatto parsa un’eternità, ha terminato il libro e poi si è ritirato in un’altra stanza».
Andy Card: «Ha rilasciato una dichiarazione molto concisa e si è incamminato, ma io ero dubbioso. “Torno a Washington D.C.”, aveva detto, ma io pensavo che non lo sapeva, come noi non lo sapevamo. Non sapevamo dove saremmo andati a finire».
IL TERZO AEREO
«Alle 9:37, il volo American Airlines 77 si schianta contro l’Ala 1, la parte occidentale del Pentagono, a 530 miglia orarie».
Ted Olson, procuratore generale del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti: «Uno dei segretari è entrato di corsa e ha detto: “Barbara al telefono.” Ho preso subito la cornetta, felice di sentire la sua voce, ma mi ha detto che il suo volo era stato dirottato, e i passeggeri erano stati radunati in coda all’aereo. I dirottatori erano armati di coltelli e cutter. Poi ci siamo rassicurati a vicenda, perché dopotutto l’aereo era ancora in quota, stava ancora volando. Si sarebbe risolto tutto. Mi ha detto “Ok, ti amo.” Sembrava molto, molto tranquilla».
Victoria “Torie” Clarke, vicesegretario della Difesa per gli affari pubblici: «Davo per scontato che fosse stata un’autobomba. Quello che mi sembra assurdo è che sapevamo che due voli di linea avevano colpito il World Trade Center, che era un attacco terroristico, e quelli più svegli già ipotizzavano che si trattasse di al-Qaeda. Ma poi quando è successo qui, non ci è venuto in mente che potesse essere un altro aereo, tanto l’evento andava oltre la nostra comprensione. Non ci è mai passato per la testa che potesse essere un altro aereo…».
VOLO 93 IN PERICOLO
Deena Burnett, di San Ramon (California), moglie di Tom Burnett, passeggero del volo United Airlines 93: «Vidi sullo schermo il numero di Tom. Ero sollevata, pensavo che se mi stava chiamando dal cellulare doveva essere al sicuro in un aeroporto. Gli chiesi se stava bene ma rispose “No, sono su un volo dirottato. È lo United Airlines 93”. Mi raccontò cosa stava succedendo. “Hanno già accoltellato un tipo. Credo che uno di loro abbia una pistola”. Iniziai a tempestarlo di domande ma mi fermò: “Deena, ascoltami”. Ripeté tutto di nuovo, pregandomi di contattare le autorità prima di riagganciare. Un’ondata di terrore mi invase, come se fossi stata colpita da un fulmine (…). Gli dissi del World Trade Center. Non lo sapeva ancora, e informò anche gli altri passeggeri. “Oh mio Dio, è un attacco kamikaze”».
Lyzbeth Glick, moglie di Jeremy Glick, passeggero del volo United Airlines 93: «Ha percepito il panico nella mia voce, e abbiamo iniziato a dirci “Ti amo”. Saremo andati avanti per 10 minuti, fino a che non ci siamo tranquillizzati. Poi mi ha spiegato cosa era successo…»
Deena Burnett: «Il telefono suonò ancora: era sempre Tom, che disse soltanto “Deena”. Pensai che fosse sopravvissuto allo schianto sul Pentagono, e gli chiesi se stesse bene, ma mi rispose di no. “Hanno appena colpito il Pentagono” lo informai, e in sottofondo mi giunsero le voci dei passeggeri che riportavano la notizia. Ne percepivo la preoccupazione e li sentivo annaspare di stupore e sgomento. Poi Tom si rivolse di nuovo a me: “Sto architettando un piano”, mi disse, “Ci riprendiamo l’aereo”. Gli chiesi chi lo stesse aiutando, e mi rassicurò dicendo che erano coinvolte alcune persone, un gruppo, e di non preoccuparmi. Mi salutò con un “Faremo qualcosa, ti richiamo”, e riagganciò.
DENTRO LE TORRI E NEL VUOTO
Bill Spade, vigile del fuoco della squadra speciale Rescue 5, FDNY: «Nella Torre Nord c’erano delle porte automatiche, che continuavano ad aprirsi e chiudersi per i corpi che cadevano giù».
William Jimeno, agente della PAPD: «Una persona mi ha colpito più di tutti, era come se potessi concentrare lo sguardo solo su di lui: era un signore biondo con i pantaloni color cachi e la camicia rosa tenue. Si gettò da lassù, e quando lo fece ricordava quasi Gesù sulla croce, dalla posizione, perché mentre precipitava era rivolto verso l’alto».
CONTINUANO LE OPERAZIONI DI SOCCORSO AL WTC
Beverly Eckert, moglie di Sean Rooney, viceresponsabile della gestione del rischio presso la Aon Corporation, Torre Sud, 98° piano: «Sean mi ha chiamato verso le 9:30 di mattina. Ha detto che era al piano 105, e capii subito che non sarebbe tornato a casa. Sotto i suoi piedi c’era un intero edificio in fiamme, e lui non batté ciglio. Mi parlava senza mai perdere la sua compostezza, come in un giorno qualsiasi, e per questo suo modo di affrontare la morte avrà per sempre la mia ammirazione. Non c’era in lui ombra alcuna di paura, nemmeno quando le vetrate tutto intorno si erano surriscaldate ed era impossibile toccarle, e il fumo aggrediva i polmoni. (…) A un certo punto, quando sentii che faceva più fatica a respirare, gli chiesi se sentiva dolore. Dopo un attimo di pausa rispose di no. Mi amava tanto da mentirmi. Alla fine, quando la nube di fumo divenne troppo densa, continuò semplicemente a sussurrarmi “Ti amo” all’infinito».
IL PRIMO CROLLO
«Alle 9:59, dopo nemmeno un’ora dall’attacco la Torre Sud, il secondo obiettivo colpito, collassa soccombendo alle fiamme alimentate dalle migliaia di litri di carburante contenute nel velivolo».
Donna Jensen, residente nel quartiere di Battery Park City: «Si sentiva il rat-tat-tat-tat-tat-tattat-tat degli scoppi che si susseguivano perfettamente ritmati, un rumore potente, secco e crepitante».
Bruno Dellinger, presidente della Quint Amasis North America, Torre Nord, 47° piano: «Ho sentito un rumore che ora non riesco a ricordare: è stato così forte, un frastuono talmente assordante che la mia mente l’ha bloccato. Mi ha spaventato a morte, e l’ho rimosso, non riesco a riportarlo alla coscienza».
Detective Steven Stefanakos, mezzo mobile 10 dell’unità speciale emergenze ESU, NYPD: «Come lo schianto di mille treni merci».
Kenneth Escoffery, vigile del fuoco dell’unità di soccorso Ladder 20, FDNY: «Come se ci avesse colpiti un missile».
Catherine Leuthold, fotoreporter indipendente: «Come trentamila jet che decollano in contemporanea».
IL BUIO DENTRO LA NUBE
Tracy Donahoo, agente del reparto trasporti, NYPD: «Il colpo fu talmente violento che sono stata sbalzata lontano. Non so a quale distanza, ma mi staccai letteralmente da terra, sentivo di essere sospesa in volo. Atterrai sulle ginocchia e su una mano. Non c’era più luce, era tutto buio pesto, non vedevo nulla e non riuscivo a respirare. Era soffocante».
Bruno Dellinger, presidente della Quint Amasis North America, Torre Nord: «Credo nel giro di cinque secondi, su di noi calò l’oscurità con una violenza incredibile. Ma, cosa ancora più singolare, non c’era alcun rumore. I suoni non riuscivano più a propagarsi perché l’aria era troppo densa».
NEL BUNKER DELLA CASA BIANCA
Dick Cheney, vicepresidente degli Stati Uniti: «Nonostante gli avvenimenti dell’11 settembre fossero davvero terribili, alcuni di noi avevano svolto esercitazioni per affrontare circostanze molto più pericolose e difficili, come un attacco nucleare sovietico diretto contro la Nazione. È stato utile, quella mattina l’addestramento ha dato i suoi frutti».
IL QUARTO SCHIANTO
Deena Burnett, moglie di Tom Burnett, passeggero del volo United Airlines 93: «Nel silenzio sentivo il cuore battere all’impazzata. Tom disse che stavano aspettando di sorvolare una zona di campagna, e che avrebbero ripreso il controllo dell’aereo. La cosa mi spaventò enormemente e iniziai a supplicarlo: “No Tom, no. Stattene seduto tranquillo e non attirare l’attenzione”. Ma non volle saperne, disse “Se vogliono far schiantare l’aereo, dobbiamo fare qualcosa”. Allora proposi di lasciar fare alle forze dell’ordine, ma rispose: “Non possiamo aspettare l’intervento delle autorità, e in ogni caso non so cosa riuscirebbero a fare, dobbiamo pensarci noi. Penso che possiamo farcela”. Rimanemmo in silenzio per qualche istante, poi fui io a riprendere: “Cosa vuoi che faccia? Cosa posso fare?” gli domandai. “Prega, Deena, prega e basta”. Dissi che l’avrei fatto e che l’amavo, e prima di riagganciare Tom ripeté di non preoccuparmi, che non sarebbero rimasti con le mani in mano. Non ha mai richiamato».
DOPO IL CROLLO
Steven Bienkowski, unità aeree, NYPD: «Lower Manhattan era completamente avvolta da un’immensa coltre di polvere bianca. Quando ci siamo riavvicinati in elicottero alla Torre Nord si vedevano ancora le persone buttarsi e precipitare giù, ma stavolta la scena era meno cruenta perché non li si vedeva rovinare al suolo, anzi c’era quasi un’aura di pace perché sparivano in questa nuvola bianca».
«Il crollo sorprende anche i vigili del fuoco che stanno scendendo dalla Scala B con un civile ferito, Josephine Harris, e un agente PAPD evacuato con loro, David Lim».
Billy Butler, vigile del fuoco dell’unità di soccorso Ladder 6, FDNY: «Ti controlli subito per vedere se hai ancora tutte le dita delle mani e dei piedi, le muovi per assicurarti che non ci sia niente di rotto. Ero malandato ma stavo bene. Stavo cercando di liberarmi spostando quegli enormi pezzi di cartongesso che mi erano caduti addosso quando a un tratto Josephine apparve tra la polvere, come il Blob che esce dalla palude. Mi sono spaventato a morte».
LE OPERAZIONI DI SALVATAGGIO A SHANKSVILLE
Norbert Rosenbaum, vigile del fuoco della Stoystown Volunteer Fire Company: «Ci avvisarono che dovevamo uscire per una missione di recupero e soccorso. Quando vidi i pezzi e tutto quanto, confidai agli altri: “Dubito che salveremo qualcuno. Quel cratere è enorme”. Tante delle cose che vidi non mi erano nuove, ero stato in Vietnam. C’erano solo parti di corpi. Tutto lì, pezzi».
James Broderick, agente della Polizia della Pennsylvania: «Ricordo l’odore. Una volta che respiri l’odore di carburante che si mescola a quello della carne umana, non te lo dimentichi più».
IL SECONDO CROLLO
Monsignor John Delendick, cappellano, FDNY: «Un poliziotto mi si avvicinò e mentre correva al mio fianco mi disse: “Padre, può confessarmi?”. Gli risposi: “Questo è un atto di guerra, darò assoluzione generale a tutti”, e così feci».
Rudy Giuliani, sindaco di New York: «Sentii che qualcuno mi afferrava e mi trascinava via, obbligandomi a correre come si fa con gli animali o i cavalli, “ANDIAMO VIA!”. Avremo corso per circa un terzo di isolato, e io non sapevo nemmeno cosa stesse succedendo. Mentre mi trascinava via gli dissi di fermarsi. Ci girammo e vidi un’immensa nube salire dal cratere. Sembrava davvero un attacco nucleare».
DOPO IL CROLLO
Sharon Miller, ufficiale della PAPD: «C’era un grande silenzio, come se tutto fosse coperto di ovatta, o di marshmallow».
Alan Reiss, direttore dell’Autorità portuale al World Trade Center: «Solo un rumore rompeva il silenzio: gli allarmi PASS».
Detective David Brink, mezzo mobile 3 dell’unità speciale emergenze ESU, NYPD: «Questi allarmi, che i pompieri usano quando non riescono a muoversi e si trovano bloccati in situazioni di emergenza, hanno un suono molto penetrante. Non si sentiva altro, gli allarmi si succedevano senza tregua, e non si riusciva a distinguere da dove provenissero».
SULLA COSTA
Rick Schoenlank, presidente dell’associazione di beneficenza United New Jersey Sandy Hook Pilots Benevolent Association: «C’erano imbarcazioni commerciali, rimorchiatori, traghetti, pescherecci, lance, navi ristorante che confluivano a Lower Manhattan per procedere all’evacuazione».
Capitano James Parese, Staten Island Ferry: «Non ho mai visto così tanti rimorchiatori tutti insieme».
MEZZOGIORNO A NEW YORK
Ian Oldaker, membro del personale di Ellis Island: «Era ora di mettersi in cammino verso casa. Insieme a una fiumana di gente, iniziammo a risalire la rampa verso il Ponte di Brooklyn. La cosa più spaventosa fu vedere le persone mettersi a urlare improvvisamente. C’erano momenti di silenzio, silenzio, silenzio, poi a un tratto le urla di chi veniva a sapere di avere perso un amico. L’uomo che camminava al mio fianco mi chiese dove si trovasse, e gli dissi che eravamo sul Ponte di Brooklyn. Indossava un completo e mi chiese cosa fosse successo. Gli risposi: “È crollato il World Trade Center” ».
LE RICERCHE
Denise McFadden, moglie di Paul McFadden, vigile del fuoco, FDNY: «Quando mi telefonò, Paul era nel bel mezzo del caos. Non capivo cosa mi diceva, stava facendo un elenco di nomi di conoscenti seguiti dall’aggettivo “morto”. Sbottai: “Smettila. Cos’è, uno scherzo di pessimo gusto?”. Ma non si fermò. Continuava a pronunciare sequenze di nomi intervallati dalla parola “morto”, non riusciva a dire altro».
LA FINE DELLA GIORNATA
Tenente Michael Day, Guardia costiera degli Stati Uniti: «Entrai a Ground Zero e ricordo che c’erano resti umani ovunque. Ricordo di aver pensato di essere in guerra. Abbassai lo sguardo e vidi un piede in una scarpa. Rimasi a guardarlo per qualche minuto. Sembrava un assedio: sulle strade di Manhattan si incontravano i militari della Guardia Nazionale con i fucili d’assalto, era saltata la corrente in tutta la zona, in molti altri edifici erano divampati incendi e ovunque pioveva un’inquietante polvere grigiastra».
Beverly Eckert, moglie di Sean Rooney, viceresponsabile della gestione del rischio presso la Aon Corporation, Torre Sud, 98° piano: «Ci siamo incontrati a soli sedici anni, al ballo della scuola; quando è morto ne avevamo cinquanta. Per quanto terribile fosse quella giornata, ricordo che non volevo che finisse, non volevo andare a dormire: finché fossi rimasta sveglia, quel giorno condiviso con Sean non sarebbe finito. Mi aveva salutato con un bacio prima di andare al lavoro, e potevo ancora dire che era successo poco tempo prima, la mattina di quello stesso giorno».